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La libertà di proselitismo degli atei e degli agnostici e il limite unico del vilipendio

Gennaro Russo

(Cass. civ., Sez. I, 17 aprile 2020, n. 7893)

Con la prima argomentazione, statuisce che il “diritto degli atei ed agnostici di professare un credo che si traduce nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa (cd. pensiero religioso «negativo»), espressione della «libertà di coscienza» sancita dall’art. 19 Cost., è tutelato – a livello nazionale ed internazionale – al pari e nella stessa misura del credo religioso «positivo», che si sostanzia, invece, nell’adesione ad una determinata confessione religiosa. Sotto tale profilo, la libertà di coscienza interseca e si coniuga con il «principio di laicità» dello Stato, declinato come neutralità imposta ai poteri pubblici dalla loro incompetenza in materia spirituale, ossia come regola della tendenziale – fatte salve le eccezioni espressamente previste dall’ordinamento (si consideri, ad esempio, il limite del «buon costume», menzionato dallo stesso art. 19 Cost.) – non ingerenza dei pubblici poteri nella sfera della libertà religiosa demandata alle scelte esclusive dei singoli. Il «principio supremo di laicità», che caratterizza in senso pluralistico la forma del nostro Stato, postula, pertanto, un atteggiamento di quest’ul­timo equidistante ed imparziale nei confronti di tutte le confessioni religiose, e la parità nella protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di una fede esclusivamente laica o agnostica (Corte Cost., sent. n. 508/2000)”. In merito alla applicabilità degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 la Prima Sezione afferma che “nella prospettiva suindicata, la giurisprudenza di questa Corte ha configurato il diritto a non subire discriminazioni, ai sensi degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, come una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione – e dunque anche sul piano della discriminazione religiosa – posta in essere sia da privati che – come nella specie – dalla Pubblica Amministrazione, perfino di fronte all’esercizio di poteri discrezionali ed autoritativi da parte di quest’ultima (Cass. Sez. U., 30/03/2011, n. 7186). In [continua ..]

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Gennaro Russo

Con l’ordinanza in epigrafe, la Corte di Cassazione si è pronunciata sui diritti riservati agli atei ed agnostici, in particolare sui limiti posti alla libertà di proselitismo di quest’ultimi. La pronuncia della Suprema Corte ha tratto origine dal ricorso presentato dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – UAAR, con sede in Roma, a seguito del rifiuto del Comune di Verona di concedere l’affissione “di dieci manifesti recanti la parola, a caratteri cubitali, “Dio”, con la “D” a stampatello barrata da una crocetta e le successive lettere “io” in corsivo e sotto la dicitura, a caratteri più piccoli, “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco”. Inoltre sono indicati, a caratteri ancora più piccoli, il logo e la denominazione dell’associazione. In particolare, la richiesta è stata respinta dalla Giunta Comunale poiché “il contenuto della comunicazione è potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione”. La UAAR, infatti, ha proposto ricorso innanzi al Tribunale, ex art. 702 bis c.p.c., ai sensi degli artt. 43 e 44 D.lgs. n. 286 del 1998, nonché ai sensi dell’art. 28 D.lgs.150 del 2011, chiedendo l’accertamento del carattere discriminatorio posto in essere dal Comune. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ritenendo che il diniego di affissione non costituisse alcuna forma di discriminazione, essendo le ragioni del rifiuto individuate esclusivamente nelle modalità grafiche ed espressive contenute nei manifesti. La decisione è stata confermata anche dalla Corte d’Appello che ha accertato l’assenza di qualsiasi condotta discriminatoria riservata all’associazione, circa la possibilità di manifestare il proprio credo religioso. Quindi, l’UAAR ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 19 e 21 della Costituzione, nonché degli art. 9 della CEDU e D.lgs. n. 286 del 1998. In particolare, l’UAAR ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse escluso la sussistenza della libertà religiosa nella forma negativa, corrispondente alla mancanza di un credo religioso, così errando nel ritenere escluso qualsiasi fenomeno di discriminazione, rispetto alle altre [continua ..]

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