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Omessa comunicazione da parte della madre della paternità e configurabilità di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c.

Debora Berta

Cass. civ., Sez. III, 5 maggio 2020, n. 8459

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(…) Ed infatti è la stessa legge conformativa del diritto che ne definisce i limiti, attribuendo prevalenza, rispetto al “jus arcendi” dell’interessato, al trattamento dei dati personali qualora “effettuato per ragioni di giustizia”, per tali intendendosi “i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie” (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 47, nel testo anteriore alla abrogazione disposta con il D.Lgs. n. 101 del 2018). Il regolamento UE n. 679/2016, art. 9, paragr. 1 e 2, lett. f), prevede che il divieto espresso di “trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” non si applica nei casi in cui il trattamento si renda necessario “per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”; analogamente, il potere del soggetto interessato di opporsi al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto, incontra il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria: art. 18, paragr. 2, art. 17, paragr. 3, lett. e), art. 21, paragr. 1, regolamento UE n. 679/2016. Ed ulteriori limitazioni alle disposizioni della legge possono essere apportate dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva la essenza dei diritti e delle libertà fondamentali, debbano essere adottate “misure necessarie e proporzionate” al fine di salvaguardare “la tutela dell’interessato o dei diritti e delle libertà altrui” od ancora “l’esecuzione delle azioni civili” (art. 23, paragr. 1, lett. i) e j), reg. UE cit.). La Corte d’appello si è, dunque, conformata al principio enunciato da questa Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 3034 del 08/02/2011 secondo cui, in tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacché detta disciplina non trova [continua ..]

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Nota di Debora Berta

In materia di tutela dei dati personali, la sentenza ricorda un principio già espresso dalla sentenza Cass. S. U. n. 3034 del 08/02/2011, secondo cui non costituisce violazione dei principi dettati dal d.lgs. n. 193 del 30/6/2003 l’utilizzo dei dati personali, anche contro la volontà del soggetto interessato, nello svolgimento di attività processuale giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale (ai sensi degli artt. 7, 8, 24 e 46-47 del medesimo decreto, oggi sostituiti in conformità al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27/4/2016 dagli artt. 2 undecies e 2 duodecies). Allo scopo di accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria, ovvero ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le funzioni loro proprie è possibile, infatti, fare uso dei dati personali anche contro la volontà del soggetto interessato. Così come il potere del soggetto interessato di opporsi al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto, incontra il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria. La sentenza precisa che quando i dati personali vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria che dovrà valutare e contemperare le esigenze di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, ma nel caso in cui le due esigenze non coincidessero, sarà il codice di rito e il principio di corretto svolgimento del giudizio (individuata come lex specialis) a prevalere sulle disposizioni contenute nel c.d. codice della privacy. La sentenza osserva come, in assenza di un vincolo matrimoniale, ovvero in mancanza di una vera e propria convivenza “more uxorio”, la mancata consapevole comunicazione all’altro genitore (nel caso di specie della madre nei confronti del padre) dell’avvenuto concepimento si traduce, ove non giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro (art. 250 c.c., commi 3 e 4) e nonostante tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, in una condotta “non jure” che, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c. La condotta è infatti suscettibile di [continua ..]

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