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Patteggiamento dell'ente: la confisca obbligatoria non deve necessariamente far parte dell'accordo
Maria Chiara Mastrantonio
Con la sentenza in esame, la Sesta Sezione della Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza di applicazione della sanzione su richiesta delle parti con cui è stata irrogata all’ente, oltre alla sanzione pecuniaria amministrativa, la confisca dei beni ai sensi dell’art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001.
Con un unico motivo di censura il ricorrente aveva dedotto la questione dell'arbitraria e non prevedibile quantificazione dell'importo confiscabile adducendo che per la determinazione del quantum il Gip si sarebbe avvalso della documentazione prodotta dall'imputato per finalità diverse da quelle per cui è stata usata (diretto a giustificare la mancata contestazione del “profitto di rilevante entità”) e lamentando come, in questo modo, avrebbe fatto indebitamente coincidere il profitto del reato con il suo prodotto, contraddicendo l'insegnamento risalente alla già citata Cass. Sez. U n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti.
Nel rigettare l’impugnazione proposta, il Giudice di legittimità ha preliminarmente chiarito come, sebbene l’art. 63, comma II, d. lgs. 231/2001 non menzioni espressamente la confisca tra le sanzioni che possono formare oggetto dell’accordo con la Pubblica Accusa, “ciò non significa però che la confisca non possa essere irrogata se non previamente concordata in caso di patteggiamento”.
Ed infatti, in virtù del suo carattere obbligatorio – espressamente sancito all’art. 19 d. lgs. 231/2001 («nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato») – la Corte di Cassazione ha evidenziato come “essa deve essere disposta anche nel caso in cui non sia preventivamente entrata nell'accordo delle parti, posto che, al momento della richiesta di patteggiamento, l'imputato era comunque nelle condizioni di prevederne l'applicazione (in termini, Sez. 2, n. 20046 del 04/02/2011, Marone, Rv. 249823 - 01. Vd. anche Sez. 6, n. 35802 del 05/05/2008, Pacini, Rv. 241376 - 01)”.
Chiarito ciò, viene di seguito affrontato il tema del perimetro del sindacato di legittimità sulla confisca disposta dal giudice del merito.
La Sesta Sezione, invero, ribadendo il dictat delle Sezioni Unite Savin (Cass. pen., Sez. Un., 26 settembre 2019, n. 21368) secondo cui “a seguito della introduzione della previsione di cui all'art. 448 c.p.p., comma 2 bis[1], è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo delle parti”, allo scopo di evitare irragionevoli differenziazioni nel trattamento di situazioni assimilabili, ha ritenuto che “l'insegnamento delle Sezioni Unite Savin trovi applicazione in materia di confisca quando essa sia stata qualificata dal legislatore come misura di sicurezza, ma anche - e, sotto alcuni profili, a maggior ragione - quando risulti configurata come pena. Dunque, anche in relazione al D. Lgs. n. 231 del 2001, art. 19”.
Viene, pertanto, evidenziato come, a seguito della sentenza delle predette Sezioni Unite si delinei un regime differenziato. Ed infatti, “là dove la confisca sia stata concordata tra le parti, l'unico rimedio esperibile in Cassazione è rappresentato dall'art. 448 c.p.p., comma 2 bis, il quale, nel limitare il ricorso "ai motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza", copre l'imputato dal rischio di errori compiuti ex post, in fase di attuazione di un accordo alla definizione dei cui contenuti ha tuttavia partecipato e di cui si è di conseguenza assunto la responsabilità (…) Se, per contro, la confisca non è stata ricompresa nel previo accordo tra le parti, la tutela predisposta dal sistema nei confronti dell'imputato si espande a consentire il controllo di legittimità secondo i più ampi parametri generali dettati dall'art. 606 c.p.p., comma 1, così predisponendo un rimedio rispetto ad eventuali indebite, come tali imprevedibili, compromissioni dei diritti, seppur a contenuto patrimoniale, dell'imputato”.
Allo stato dell’arte, dunque, in caso di applicazione della pena (rectius sanzione) su richiesta delle parti, qualora la confisca abbia formato oggetto del previo accordo, il ricorso per Cassazione è ammesso nei limiti di all’art. 448, comma II bis, c.p.p.; laddove, invece, la confisca non abbia formato oggetto dell’accordo, il ricorso per Cassazione potrà essere presentato per tutti i casi di cui all’art. 606, comma I, c.p.p.
Nel caso di specie, rileva la Corte, non avendo costituito la confisca parte dell’accordo, il provvedimento che la dispone è sindacabile in Cassazione secondo i principi generali dettati dall’art. 606, comma I, c.p.p. che, tuttavia, impediscono al giudice di legittimità di entrare nel merito della valutazione compiuta dal giudice che ha disposto la confisca, dovendo il giudizio arrestarsi alla mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
In conclusione, non ritenendo ravvisabili alcuno dei predetti vizi ed anzi avendo il giudice di merito tenuto conto di plurimi documenti prodotti dall’amministratore dell’ente indicativi dei costi affrontati dalla società a seguito dell’aggiudicazione della gara d’appalto, la quantificazione dell’importo è apparsa insindacabile concludendo, dunque, per il rigetto dell’impugnazione elevata.
[1] Sul punto, appare opportuno evidenziare come il legislatore – con l’art. 1 della L. 23 giugno 2017, n. 103 (Riforma Orlando) - abbia inteso, ex pluris, introdurre alcune rilevanti modifiche alla disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, focalizzando l’attenzione sui motivi di ricorso per Cassazione e sulla correzione degli errori materiali, all’evidente – e dichiarato - scopo di garantire una più celere definizione del procedimento penale nonché di scoraggiare iniziative meramente dilatorie. Nello specifico, è stato previsto, inserendo il nuovo comma II bis all’interno dell’art. 448 c.p.p., che «il pubblico ministero e l'imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza». Con riferimento all’illegalità della pena, occorre richiamare l’orientamento della Suprema Corte secondo cui tale vizio “sussiste solo quando la sanzione irrogata non sia prevista dall'ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata, salvo che non sia frutto di errore macroscopico” (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 ottobre 2018, n. 52205, Rv. 274292).
Sezione:
(Cass. Pen., Sez. VI, 11 maggio 2022, n. 18652)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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