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L´illegittimità costituzionale dell´art. 4, co. 3, T.U. Immigrazione, nella parte in cui prescrive l´automatica preclusione del rinnovo del permesso di soggiorno a seguito di condanna, anche non definitiva, per il reato di spaccio lieve e di condanna definitiva per il reato di commercio di prodotti con segni contraffatti.

Matteo Milanesi.

Con la sentenza in commento, la Consulta torna a decidere sulla costituzionalità degli automatismi legislativi. Il giudizio prende le mosse da due distinti atti di rimessione, iscritti al registro delle ordinanze ai nn. 97/22 e 99/22 ed entrambi emanati dal Consiglio di Stato. Essi sollevano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, co. 3 del D. Lgs. 286/1998 (c.d. T.U. Immigrazione), implicitamente inteso in combinato disposto con l’art. 5, co. 5 del medesimo decreto (quest’ultimo, “nel riferirsi al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno, li subordina alla sussistenza dei requisiti richiesti per l’ingresso […] rinviando al citato art. 4, comma 3”, tanto che per la Corte “le doglianze, espresse dal rimettente nei confronti dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 […], sono all’evidenza rivolte al combinato disposto di questa norma e di quella di cui all’art. 5, comma 5, dello stesso decreto legislativo”).

 

Tali disposizioni contribuiscono a delineare il quadro normativo in materia di flussi migratori, ponendo un punto di equilibrio tra il rispetto dei diritti individuali e la tutela dell’ordine pubblico. Per farlo identificano talune cause ostative al rilascio od al rinnovo del permesso di soggiorno, fondate sui comportamenti penalmente rilevanti realizzati dallo straniero richiedente. Come affermato dalla Corte Costituzionale, la legge imbastisce un “sistema ‘bipartito basato sulla enucleazione di due criteri concorrenti di natura composita’ […]: l’uno di carattere misto (quantitativo-qualitativo) che, mediante il richiamo all’art. 380, commi 1 e 2, cod. proc. pen., include tra i reati ostativi tutti quelli che prevedono l’arresto in flagranza obbligatorio, a loro volta individuati in base non solo al quantum di pena stabilito dalla legge (comma 1 dell’art. 380 cod. proc. pen.), ma anche alla classificazione per “tipologia” (comma 2 dello stesso art. 380); l’altro, di natura solo qualitativa, che fa rientrare, tra i reati ostativi, anche quelli specificamente individuati dalla norma […]” (Cfr. sent. 277/2014).

In altri termini, la condanna riportata per uno dei reati di cui sopra preclude ope legis il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Si tratta, con evidenza, di un automatismo, della cui legittimità i rimettenti dubitano. I giudici a quibus promuovono infatti due incidenti di costituzionalità, a partire dall’inclusione, nell’elenco di che trattasi, tanto del c.d. “spaccio di lieve entità” (art. 73, co. 5 del D.P.R. 309/1990) quanto del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.). Evidenziano, variamente, il difetto di proporzionalità delle prescrizioni, l’irragionevolezza (intesa quale incoerenza tra mezzo normativo e fine perseguito) delle medesime e la disomogeneità nella parificazione delle fattispecie oggetto d’esame ad altre più efferate (vengono citati, quali esempi, l’omicidio, la violenza sessuale, gli atti sessuali con minorenni); a parere dei rimettenti, l’impianto normativo contrasterebbe altresì con l’art. 8 C.E.D.U., il quale garantisce lo sviluppo personale ed il diritto a partecipare alla crescita della società.

Di conseguenza, con gli atti di promovimento si solleva la questione di costituzionalità – per contrasto con gli artt. 3 e 117, co. 1 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 C.E.D.U.) – dell’art. 4, co. 3 del T.U. “nella parte in cui prevede che il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (nel caso della ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2022)”, e nella parte in cui prevede che  “il reato di cui all’art. 474 cod. pen. (nel caso della ordinanza iscritta al n. 99 reg. ord. 2022) siano automaticamente ostativi al rilascio ovvero al rinnovo del permesso di soggiorno.”

L’esame della Corte muove dal primo caso. Posto che i dubbi del Consiglio di Stato attengono, nella specie, al dedotto contrasto con i parametri di ragionevolezza e proporzionalità, la Corte ricorda preliminarmente che “il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del test di proporzionalità”. Attraverso lo stesso, il Giudice, ritenuta la misura normativa necessaria e idonea in relazione agli obiettivi legittimamente perseguiti, valuta se essa sia la meno restrittiva dei diritti e “stabilisca oneri non sproporzionati” rispetto al fine.

In questo quadro, rammenta la Consulta che le previsioni legislative che implichino “l’allontanamento dal territorio nazionale di uno straniero [… necessitano] di ‘un conveniente bilanciamento’ tra le ragioni che giustificano la misura di volta in volta prescelta dal legislatore […] ‘e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell’interessato, fondato appunto sull’art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi’” (Ord. N. 217/2021.). Precisa, peraltro, che in materia di diritti fondamentali “la Costituzione protegge egualmente […] cittadino e […] non cittadino”.

A questo punto, il Giudice riconosce che la discrezionalità del legislatore può sì spingersi sino al disciplinare casi di diniego automatico del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno; tuttavia – e ciò è dirimente – “alla condizione che simile previsione sia il risultato ‘di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai sensi dell’art. 3 Cost., tra l’esigenza, da un lato, di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione’” (Sentt. 202/2013 e 172/2012).

A supporto di questo argomento vengono citate talune precedenti censure mosse agli automatismi legislativi eccessivamente restrittivi dei diritti fondamentali dello straniero; decisioni che “sono in sintonia con gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo”. La giurisprudenza convenzionale ha del resto costruito un novero di indicatori atti a comprendere “se la misura dell’allontanamento di uno straniero possa considerarsi ‘necessaria’, in una società democratica, e ‘proporzionata’ allo scopo legittimo perseguito” (Sentt. 253/2019, 268/2016, 213 e 57/2013). Tali criteri, “ad ampio raggio”, rifuggono “il meccanismo automatico tipico delle presunzioni assolute”.

La Consulta ha così colto l’occasione per ribadire il seguente consolidato principio di diritto: “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati”. Risulta confermata, in breve, la tesi della “tendenziale incostituzionalità degli automatismi legislativi” (Fortunata espressione utilizzata da L. Santoro in L’attribuzione del cognome ai figli: dalla discrezionalità del legislatore… alla discrezionalità dei genitori (considerazioni controcorrente a partire dalla ord. n. 18/2021 della Corte costituzionale), in Consulta online, 2021, 484).

Ricostruito il quadro del diritto vivente, la Corte passa ad esaminare il merito, ricordando preliminarmente l’analogo caso in cui essa ha “giudicato manifestamente irragionevole che il provvedimento amministrativo di diniego, avente ricadute sulla regolarità del soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, consegua automaticamente alla pronuncia di una sentenza di condanna per uno dei reati” il cui arresto in flagranza sia facoltativo; ciò perché tali reati non sono in sé “sintomatici della pericolosità di colui che li ha commessi” (sent. n. 172/2012). Sicché, de iure condito, la condanna per uno di tali reati “non influisce sul buon esito del procedimento di emersione” in via automatica, postulando invece una valutazione discrezionale della P.A. La Corte ragiona di conseguenza: se tale principio vale per la “speciale disciplina dell’emersione”, non si vede perché esso non possa “trovare logico e coerente approdo anche nell’ambito della disciplina “generale” di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998”.

A ciò si aggiunge una considerazione autonoma: è ben possibile che sussistano circostanze in grado di scardinare la presunzione di pericolosità del soggetto. Si citano, a tal riguardo, la potenziale lieve entità del fatto, il tempo trascorso dal medesimo, il percorso rieducativo seguito dopo la condanna; tutti casi in cui l’allarme sociale suscitato dall’esistenza di un fatto criminoso risulta potenzialmente ridimensionato. “Da ciò la necessità che l’amministrazione sia chiamata a compiere, caso per caso, un proprio apprezzamento, in quanto la pericolosità non è fatta discendere dalla mera sussistenza di una sentenza di condanna penale.” Tale citato apprezzamento non pregiudica di per sé l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico, anche in considerazione della possibile e legittima impugnazione.

Sulla base di questa argomentazione – e alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza interna ed internazionale – la Corte ritiene peraltro “di dover superare le conclusioni cui era pervenuta con la ormai risalente sentenza n. 148[/08 …]. Si osservò allora che il rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno […] non costituisce sanzione penale, sicché il legislatore ben può stabilirlo per fatti che, sotto il profilo penale, hanno una diversa gravità.

Il Collegio trasla integralmente i ragionamenti svolti anche all’art. 474 c.p., il cui esame è limitato (per ragioni di rilevanza nel giudizio a quo) al solo co. 2, “che incrimina il commercio di prodotti con segni contraffatti”. In aggiunta si rileva come la fattispecie, in questo caso, non sia “nemmeno tale da comportare la misura dell’arresto facoltativo in flagranza”.

Concludendo, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale del vagliato combinato disposto, nella parte in cui prescrive l’automatica preclusione del rinnovo (e non anche, per ragioni di rilevanza, del rilascio) del permesso di soggiorno a seguito di condanna, anche non definitiva, per il reato di spaccio lieve e di condanna definitiva per il reato di cui all’art. 474, co. 2 c.p. Si aggiunge, in questo modo, un ulteriore tassello alla giurisprudenza costituzionale in materia di presunzioni normative assolute nell’ambito dei diritti fondamentali; giurisprudenza implicitamente monitoria, che – de iure condendo – indica al legislatore un favor per la discrezionalità.

Argomento: immigrazione
Sezione: Corte Costituzionale

(Corte Cost., 8 maggio 2023, n. 88)

Stralcio a cura di Aniello Iervolino

Il Consiglio di Stato, sezione terza, con due ordinanze di analogo tenore, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui prevede che il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (nel caso della ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2022), nonché il reato di cui all’art. 474 cod. pen. (nel caso della ordinanza iscritta al n. 99 reg. ord. 2022) siano automaticamente ostativi al rilascio ovvero al rinnovo del permesso di soggiorno.  Il giudice rimettente è chiamato a decidere, in grado di appello, sulla legittimità di due provvedimenti di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro che sono stati adottati, dall’amministrazione competente, in conseguenza di una sentenza di condanna a carico dei rispettivi richiedenti. In entrambe le ordinanze di rimessione si precisa che il titolare del permesso di soggiorno da rinnovare non ha legami familiari sul territorio nazionale, sicché non risulta applicabile la previsione di cui all’art. 5, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998, che “mitiga” l’automatismo censurato imponendo all’amministrazione, allorché il procedimento riguardi uno «straniero [ai sensi dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998] che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» ovvero il «familiare ricongiunto», o (per effetto della sentenza di questa Corte n. 202 del 2013) uno straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato», di tenere conto «della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale». […] Nei casi all’odierno esame di questa Corte, viene, dunque, in considerazione la predetta disciplina, che – per gli stranieri privi di legami familiari – fa discendere dalle condanne previste dal citato art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 la conseguenza automatica del diniego di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno (ovvero, ancora, della sua revoca). Tale automatismo, che non si rinveniva nell’originaria formulazione della [continua ..]

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