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Vincoli culturali di destinazione d'uso: possibili con adeguata motivazione per beni materiali e testimonianze immateriali

Nota di Alessandra Coppola.

Con sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023, l ’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata in ordine alla ammissibilità dell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storico-artistici.

In particolare, la Sesta Sezione del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa si è interrogata in ordine alla legittimità di un decreto ministeriale con il quale il Ministero dei Beni Culturali aveva dichiarato, ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d) del d.lgs. n. 42/2004, l’interesse culturale particolarmente importante di un immobile, tenuto conto non soltanto delle opere e degli elementi di arredo ivi conservati, ma altresì del patrimonio immateriale del ristorante “OMISSIS”, costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how –come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi- che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. Siffatto patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione e costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, sarebbe stato, secondo l’Amministrazione, adeguatamente conservato soltanto garantendo “la continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.

Deferendo la questione all’Adunanza Plenaria, la predetta Sezione ha subito rilevato come la giurisprudenza del Consiglio di Stato non abbia mai in maniera univoca risolto la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un vicolo culturale di destinazione d’uso.

Per un primo indirizzo (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933), il vincolo culturale de quo non potrebbe imporsi, attesa la sua incompatibilità con il dato positivo e in quanto contrastante con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica. In altri termini, “il ritenere che l’Amministrazione possa vincolare un immobile non nella sua identità strutturale (intesa come specifica conformazione costruttiva), ma con riferimento alla sua specifica destinazione (e, quindi, a una determinata attività), si baserebbe su una visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà e fortemente restrittiva del principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori in senso lato dell’Amministrazione pubblica”. A supporto di tale conclusione, è stato richiamato l’art. 51, comma 1, D. Lgs. n. 42/2004 che prevede uno speciale tipo di vincolo a bene culturale per gli “studi d'artista”: il legislatore avrebbe quindi eccezionalmente imposto solo per tali beni, in deroga alla regola generale, il divieto di “modificare la destinazione d'uso (...) nonché rimuoverne il contenuto (…), qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico…” (sul punto Consiglio di Stato, sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198).

Si è anche osservato che l’effetto della limitazione in oggetto violerebbe i principi di proporzionalità e ragionevolezza, generando un’insostenibilità economica del bene, in contrasto con le stesse finalità cui è invece orientata la tutela normativa dei beni culturali.

Un diverso orientamento (si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255), pur affermando il tendenziale divieto di vincoli culturali di destinazione d’uso, ha ritenuto ammissibile derogare alla regola de qua allorquando sia necessario tutelare, in via immediata e diretta, il bene culturale e non, invece, l’attività in esso esercitata. In tale eventualità non potrebbe neppure ravvisarsi una irragionevole o sproporzionata compressione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica: “si farebbe, infatti, questione non di un vincolo comportante l’obbligo di continuazione sine die dell’attività culturale, ma della sola individuazione dell’uso compatibile della res dichiarata di interesse culturale, a prescindere dall’identità della persona legittimata ad esercitare l’attività”.

Peraltro, la limitazione della proprietà privata sarebbe comunque legittima, rientrando nel potere conformativo attribuito all’Amministrazione con riferimento a particolari tipologie di beni, tenuto conto di quanto disposto dall’art. 42 Cost.

Ancora, altra impostazione - cui aderisce l’ordinanza di remissione- sostiene che la legittimità del vincolo di destinazione d’uso su beni culturali andrebbe valutata avuto riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta. Una siffatta conclusione si imporrebbe con riguardo ai beni culturali di cui all’art. 10 del D.lgs. n. 42/2004 a fronte di espressioni di identità culturale collettiva. E invero, in relazione ai beni de quibus, sussisterebbe la necessità di garantire non solo la conservazione della res, ma pure la continuità del processo di condivisione, riproduzione e trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.

Ciò posto, l’Adunanza Plenaria ritiene di aderire all’orientamento da ultimo sintetizzato, affermando che il potere di imposizione di limiti all’uso del bene culturale discenderebbe dal combinato disposto degli articoli 18, co. 1, 20, co. 1 e 21, co. 4 del Codice dei Beni Culturali. Gli articoli anzidetti, infatti, attribuiscono anzitutto al Ministero il potere di vigilanza sui beni culturali, al fine di garantire il rispetto dei divieti posti dalla disciplina di riferimento, compreso quello di usi incompatibili con il carattere storico-artistico del bene culturale o comunque idonei a recare nocumento alla sua conservazione ed impongono, poi, di comunicare alla Soprintendenza il mutamento di destinazione d’uso del bene medesimo, onde permetterle di verificare la compatibilità del nuovo uso con le caratteristiche storiche o artistiche del bene o con la sua materiale conservazione.

Solo una tale interpretazione del quadro normativo di riferimento consentirebbe di raggiungere gli obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in commento, ovverosia quelli di conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, co. 2, D.lgs. n. 42/2004).

Essa, peraltro, non produrrebbe neppure un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica, come da taluni sostenuto.

Anzitutto, i vincoli culturali hanno natura conformativa e non espropriativa; inoltre, ai sensi dell’art. 9 Cost., l’interesse culturale prevale su qualsiasi altro interesse –compresi quelli economici- nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151).

Resta fermo che il vincolo non può comunque riguardare l’attività esercitata, considerata separatamente dal bene: “la tutela del bene culturale non può che estendersi al suo uso ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale”.

Si aggiunga che tale interpretazione risulterebbe pure coerente con l’attribuzione del potere di pianificazione territoriale attribuito alle Amministrazioni pubbliche, il cui esercizio ben può tener conto di tutte quelle esigenze legate alla tutela degli interessi costituzionalmente primari, in funzione quindi dello sviluppo complessivo ed armonico del territorio su cui tale potere viene esercitato.

A contrario, non può ricavarsi l’inammissibilità di tali vincoli dal dettato dell’art. 51, D.lgs. n. 42/2004 in materia di studi d’artista: la circostanza che il legislatore abbia per tale categoria di beni imposto un vincolo di destinazione d’uso per renderne immodificabile l’ambiente ed i luoghi non determina comunque la non giustificabilità di siffatti vincoli per altre categorie di beni culturali a seguito di una valutazione amministrativa che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali potrebbero comportare un nocumento per la conservazione dei suoi caratteri storico-artistici o per la sua integrità materiale.

Tale soluzione va seguita non soltanto per i beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04 ma anche con riguardo alle ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis del medesimo testo normativo, in relazione alle quali si ravvisa l’esigenza di salvaguardare non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità della condivisione, della riproduzione e della trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata: “il potere di tutela è funzionale, in siffatta ipotesi, a garantire non soltanto l’integrità fisica della res, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce “testimonianza vivente”.

Sicché, nell’ambito delle misure di protezione dei beni culturali, a una visione che contrappone  la “tutela delle cose” ex art. 10 (basata su un procedimento autoritativo di tipo verticale) alla “tutela delle attività” di cui all’art. 7 bis (che richiederebbe, invece, l’intervento delle comunità interessate e un procedimento di tipo partecipativo), deve preferirsi un approccio integrato e dinamico della tutela del bene culturale, considerato dunque nella sua interezza.

E ciò non comporta alcuna violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza atteso che il provvedimento di vincolo non risulta finalizzato a garantire la continuità d’uso a favore di un determinato gestore e non è neppure volto a favorire una specifica attività imprenditoriale o commerciale: “oggetto di tutela è l’interesse pubblico primario correlato alla protezione del bene culturale, che giustifica l’apposizione del vincolo di destinazione in ragione della funzione sociale della proprietà privata e della preminenza del bene “cultura”.

Argomento: beni culturali
Sezione: Adunanza Plenaria

(Cons. St., Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5)

stralcio a cura di Davide Gambetta

FATTO […] 2.1. La società appellante è titolare del ristorante […] in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato […]. Tale edificio – in origine di proprietà di un ente pubblico - è stato dichiarato di interesse storico artistico, ai sensi dell’art. 10, comma 1, D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), con D.M. del 22 agosto 2006[…]. […] 3.1. […] il decreto ministeriale […] oltre a dichiarare l’interesse particolarmente importante dell’immobile (ristorante) con le opere e gli elementi di arredo ivi conservati, ha pure richiamato, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica predisposta durante l’istruttoria, che riveste particolare importanza sulla perimetrazione della portata, oggettiva e soggettiva, del vincolo di tutela. […] DIRITTO […] 1.2. È qui dunque controversa la legittimità di un decreto, con cui il Ministero della Cultura, pur dichiarando ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), l’interesse particolarmente importante di cose materiali, individuate tanto in un’unità immobiliare all’interno di un edificio (già dichiarato di interesse culturale) quanto nelle opere e negli elementi di arredo conservati al suo interno: - ha tutelato l’immobile quale “ristorante”, valorizzando, dunque, l’attività commerciale in esso esercitata; - ha evidenziato un interesse culturale per “riferimento” a specifici fatti ed eventi riguardanti la storia, artistica e culturale, della comunità nazionale e locale di cui la cosa tutelata ha costituito la sede o reca testimonianza; - ha applicato anche i principi enunciati dall’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 in materia di ‘espressione di identità culturale collettiva’, a sua volta recante un rinvio alle Convenzioni Unesco in materia di ‘patrimonio cultuale immateriale’; - ha integralmente recepito le prescrizioni recate nella richiamata relazione storico critica, ivi compresa l’esigenza di garantire la conservazione, oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della ‘continuità d’uso’ esplicata negli [continua ..]

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