home / Archivio / Diritto Amministrativo raccolta del 2022 / L'accesso civico generalizzato, elevato oggi a diritto democratico fondamentale, pur non ..

indietro stampa contenuto leggi libro


L'accesso civico generalizzato, elevato oggi a diritto democratico fondamentale, pur non richiedendo la dimostrazione di un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite nelle cause ostative di cui all'articolo 5-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33.

Ginevra Gelsomini.

La questione esaminata dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento origina da un ricorso ex art. 116 c.p.a. promosso dal direttore di una rivista avverso il provvedimento di diniego adottato da una Agenzia pubblica con cui si negava l’ostensione di un documento ai sensi degli artt. 5 bis, comma 1, lettere a), b) e c) del D.Lgs. n. 33 2013 e del Decreto del Ministero dell’Interno del 16.3.2022, emanato in attuazione dell’art. 24 comma 1 l. 241 del 1990.

In particolare, il documento di cui si chiedeva l’ostensione attraverso l’istituto dell’accesso civico generalizzato consisteva in un accordo di collaborazione stipulato tra la stessa Agenzia resistente e un ufficio centrale di un dicastero che, almeno secondo quanto motivato dal provvedimento di diniego, non poteva essere osteso per due ordini di ragioni.

Come prima ragione, per il potenziale pregiudizio concreto che ne sarebbe derivato alla sicurezza pubblica, all'ordine pubblico nonché alla difesa e alle questioni militari nonché alle relazioni internazionali (limite espressamente sancito all’art. 5 bis lett. a), c) e d)).

La seconda ragione trovava invece appiglio normativo nel Decreto del Ministero dell’Interno del 16.3.2022 che, all’art. 2 comma 1 lett. d), in attuazione dell’art. 21 della legge 241/1990, individua espressamente come sottratti all’accesso tutti i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione, anche quelli afferenti alla gestione delle frontiere e dell’immigrazione.

Sia il TAR Lazio in primo grado che, in sede di gravame, il Consiglio di Stato, confermato che ciascuno dei motivi enucleati dalla PA nel provvedimento impugnato “costituisce una ragione di per sé idonea a giustificare la deliberazione del diniego”, approfondendo, in tale sede, la natura dei limiti che l’ordinamento oppone all’esercizio dell’accesso in generale e, in particolare, all’esercizio dell’accesso civico generalizzato.

Al fine di comprendere il percorso motivazionale del giudice del gravame, preme in limine evidenziare le peculiarità del diritto di accesso, qualificato dalla dottrina come istituto proteiforme in quanto suscettibile di essere distinto in differenti tipologie quanto a fondamento, legittimazione e limiti opponibili al suo esercizio.

La forma di accesso che storicamente ha segnato un primo passo verso la trasparenza dell’azione amministrativa è il c.d. accesso documentale, che trova il proprio riconoscimento agli articoli 21 e seguenti della L. 241 del 1990 e consiste nel diritto degli interessati a prendere visione di documenti amministrativi al fine di soddisfare un interesse giuridicamente protetto.

Il controllo dell’attività amministrativa è subordinato in questo caso al principio del need to know, dunque al bisogno di conoscere per garantire tutela (e soddisfazione) a un interesse ulteriore, concretamente collegato alle esigenze specifiche del richiedente e, come tale, non emulativo e non riconducile a mera curiosità, oltreché, segnatamente, riferibile al ricorrente in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall’ordinamento come meritevole di tutela.

Pertanto, l’accesso documentale non appare ammissibile laddove l’istanza del privato sia preordinata ad una generalizzata, e non consentita, forma di controllo dell’attività amministrativa fondata sul generico interesse al buon andamento dell’operato della PA.

Tale principio, affermato più volte dalla giurisprudenza, è stato poi codificato in sede di riforma della legge 241/1990, nell’art. 24 comma 3, come modificato dalla legge n. 15/2005, ivi specificandosi che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.

Dunque, legittimato alla richiesta ostensiva non è il quisque de populo, ma, appunto, soltanto il privato titolare dell’interesse strumentale o, come recita l’art. 22 della legge 241/1990, i soggetti portatori di interessi pubblici diffusi.

L’esistenza di un interesse strumentale costituisce condizione necessaria ma non ancora sufficiente per ottenere l’ostensione della documentazione amministrativa.

Come ha osservato la giurisprudenza amministrativa e la stessa sentenza in commento, la PA può rigettare l’istanza laddove motivi circa l’esistenza di limiti previsti dalla legge che impediscano l’ostensione del documento richiesto.

A tal proposito, preme evidenziare che l’accesso agli atti può essere precluso soltanto nelle ipotesi previste da specifiche previsioni di legge; ciò in forza del principio di legalità che permea tutta l’azione amministrativa.

La legge n. 241/1990, difatti, da un lato, al comma primo dell’art. 24, individua limiti tassativi oggettivi, che vincolano il potere della PA e sono finalizzati alla salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prioritari rispetto al generale interesse alla conoscenza dei documenti; dall’altro lato, al comma 6 del medesimo articolo, rimette al Governo, per il tramite dell’esercizio del potere regolamentare, la previsione di casi di sottrazione all’accesso di documenti amministrativi al fine di salvaguardare esigenze ulteriori .

 

La seconda forma di accesso, denominata accesso civico, integra una ipotesi di ostensione dei documenti e dei dati pubblici equivalente a quella che nei sistemi anglosassoni viene normata dai Freedom of Information Act. Questa nuova tipologia di accesso è stata introdotta dal D.Lgs 33/2013 con la finalità di implementare il valore della trasparenza amministrativa nella misura in cui prevede che chiunque, indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridiche rilevanti, possa accedere a tutti i dati e documenti detenuti dalla pubblica amministrazione compatibilmente con residuali limiti previsti dalla legge.

Preme evidenziare che il D.Lgs 33 del 2013 distingue due tipologie di accesso civico: l’accesso civico “semplice” di cui all’art. 5 comma 1, che consente di acquisire i documenti oggetto di specifici obblighi di pubblicazione, e l’accesso civico “generalizzato” introdotto dal D. Lgs. n. 97/2016 il quale affianca ad una trasparenza di tipo proattivo basata su preesistenti obblighi di pubblicazione, una trasparenza di tipo reattivo, ossia in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati. L’art. 5 comma 2 D.Lgs. 33/2013, difatti, ha il pregio di consentire l’ostensione anche di quei dati e documenti per i quali non esiste un previo obbligo di pubblicazione e che l'amministrazione è tenuta a disvelare a fronte dell’istanza di qualunque privato.

Ne consegue che la disclosure, a differenza dell’accesso documentale, non è più limitata a quelle informazioni riguardo alle quali il richiedente sia titolare di un interesse specifico e qualificato, diretto, concreto, attuale, idoneo a motivare la sua istanza di accesso. È riconosciuto al cittadino un vero e proprio diritto alla richiesta di atti inerenti alle pubbliche amministrazioni, a qualunque fine, senza necessità di motivazioni. Tanto che illustre dottrina e la stessa sentenza in commento evidenziano come l’istituto dell’accesso civico generalizzato risponda alla logica del right to know (diritto di conoscere) attuando il diritto fondamentale di essere informati e, pertanto, trovi il proprio fondamento non solo nella Carta Costituzionale, ma altresì nella carta di Nizza e nella stessa CEDU e, in particolare, nell’art. 10 in quanto la libertà di espressione include la libertà di ricevere informazioni” la cui ricerca è funzionale a consentire “la partecipazione al dibattito pubblico”  e cioè a “rendere possibile quel controllo “democratico” che l’istituto intendere perseguire. La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability) della classe politica e dirigente del Paese”.

L’ampia legittimazione (“chiunque può accedere”) e l’ampio oggetto (qualsiasi documento o informazione comunque detenuta dall’amministrazione, quindi eventualmente anche informazioni che non siano cristallizzate in documenti in senso proprio) dell’accesso civico generalizzato se, da un lato, realizza la più vasta partecipazione alla vita amministrativa, dall’altro, impone l’individuazione di limiti più stringenti rispetto all’accesso procedimentale, proprio per prevenire potenziali pregiudizi collaterali ai sottesi interessi pubblici e privati coimplicati dall’attività amministrativa ispezionata mediante l’accesso medesimo.

 

In particolare, l’art. 5 bis del D.Lgs. 33 del 2013 prescrive  limiti rimessi ad un bilanciamento in concreto da parte dell’Amministrazione. Quest’ultimo è appunto tenuta a valutare caso per caso l’interesse che reputa prevalente soppesando, da un lato, l’interesse alla trasparenza amministrativa e, dall’altro, l’interesse  alla segretezza pubblica di cui al primo comma ovvero alla riservatezza dei privati (in particolare, la protezione dei dati personali e gli interessi commerciali).

Il legislatore utilizza un’espressione stringente: l’accesso è negato se il diniego è necessario, in forza di una scelta in concreto rimessa alla pubblica amministrazione, chiamata a stabilire se di volta in volta i presupposti previsti dal legislatore.

Il comma 3 dell’art. 5 bis individua, invero, limiti assoluti al diritto di accesso, ovvero ipotesi al ricorrere delle quali l’ostensione dei documenti deve essere esclusa in forza di una valutazione ex ante predeterminata dal legislatore che individua il punto di equilibrio tra esigenze di trasparenza e interessi pubblici confliggenti. La norma dispone che l’accesso è escluso (quindi lo è tassativamente senza possibilità adoperare una comparazione da parte della PA) nei casi di segreto di Stato e nei casi in cui la legge, in determinate materie, imponga particolari condizioni modalità o limiti comprese quelle di cui all'art. 24 co. 1 della 241del 90.

Alla luce di quanto esposto emerge come i limiti sanciti in materia di accesso civico abbiano una doppia anima: sono discrezionali e facoltativi se ricorrono le ipotesi di cui ai primi due commi, sono, invero, assoluti e vincolanti per la PA al ricorrere delle ipotesi di cui al terzo comma del medesimo articolo, ove si richiamano le prescrizioni tassative disciplinate  dall’art. 24 legge 241 del 1990.

Ebbene, nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, il direttore della rivista, parte ricorrente, con il primo motivo di ricorso, lamentava l’erroneità della sentenza impugnata “per aver ritenuto che i documenti richiesti rientrerebbero tra i casi di eccezione assoluta del diritto di accesso in virtù del richiamo che l’art. 5 bis comma 3 del dlgs 33/2013 fa ai limiti dell’accesso documentale, segnatamente, all’art. 24 comma 1 e due e ai regolamenti ivi richiamati” e, in particolare, adduceva l’impossibilità per l’amministrazione di estendere analogicamente i limiti previsti per tale forma di accesso all’accesso civico generalizzato, poiché posti a presidio di interessi diversi.

Il ricorrente sosteneva, ancora, che tali limiti avrebbero dovuti essere adattati alla natura maggiormente partecipativa della nuova forma di accesso e che la loro opposizione da parte della PA avrebbe avuto l’esito di incidere negativamente sull’estensione di un diritto fondamentale protetto dall’art. 10 CEDU, quale appunto il diritto di essere informati. Di qui “la necessità di interpretare cum grano salis il rinvio dell’art 5 bis comma 3 (…) in tema di esclusione del diritto di accesso” e, di volta in volta, di corredare il provvedimento reiettivo dell’accesso civico di una precipua motivazione, insussistente nel caso di specie.

Il Consiglio di Stato, alla luce prevalente giurisprudenza sulla natura dei limiti al diritto di accesso (Ad. Plen., 10/20), respingeva l’appello evidenziato come nel caso specifico ricorresse pacificamente una ipotesi di divieto assoluto, ovvero una situazione al ricorrere della quale la PA è tenuta a negare l’ostensione senza motivare “in relazione all’accertamento della mancanza di un pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse protetto dalla norma che vieta l’accesso”.

La fonte del divieto era, difatti, da rinvenirsi nell’art. 5 bis, comma 3, D.Lgs. 33/2013 che, nel richiamare i limiti all’accesso documentale di cui all’art. 24 comma 1 l. 241/1990 (nel caso di specie si trattava, in particolare, della lettera a) dell’articolo citato che rinvia ai regolamenti governativi l’individuazione dei casi tassativi di esclusione), non ammette margini di discrezionalità o, come meglio chiarisce la sentenza, non richiede “una motivazione della amministrazione che bilanci in concreto le ragioni sottese alla richiesta di accesso civico generalizzato con quelle cui è informato il contro-interesse tutelato dalla legge o in base alla legge.”

Il carattere vincolato e non discrezionale della attività della pubblica amministrazione circa l’individuazione dei casi in cui l’accesso “deve” essere escluso si riflette sia nell’assenza di un onere di esplicita motivazione nel caso di diniego (anche perché, diversamente, la specificazione delle ragioni del diniego potrebbe disvelare in tutto o in parte “informazioni e dati che la normativa ha escluso o limitato dall’accesso, per tutelarne la riservatezza pubblica o privata”), sia sulla impossibilità per la PA di rendere conoscibile solo una parte del documento, non sussistendo “alcun potere valutativo suscettibile di estrinsecarsi nella fissazione di un limite modale”.

Del resto, come osserva la sentenza in commento, la circostanza che l’accesso civico sia sottoposto non solo a limiti suoi propri (di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 5 bis) ma, grazie al rinvio che l’art. 5 bis comma 3 D.Lgs. 33/2013 fa all’art. 24 della l. 241 del 1990,  anche alle preclusioni assolute e tassative previste per l’accesso documentale, non pregiudica il diritto di essere informati ex art 10 CEDU, ma trova giustificazione nella precisa scelta del legislatore di voler in certa misura temperare l’ampia legittimazione e l’ampio oggetto che, a differenza dell’accesso documentale, caratterizza l’accesso civico generalizzato.

Argomento: accesso agli atti
Sezione: Consiglio di Stato

(Cons. St., sez. IV, 16 novembre 2023, n. 9849)

Stralcio a cura di Davide Gambetta

[…] Con un primo mezzo di gravame, la parte appellante adduce l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto che i documenti richiesti rientrerebbero tra i casi di eccezione assoluta all’accesso, in virtù del richiamo che l’art. 5 bis, c.3, d.lgs 33/13, fa ai limiti all’accesso documentale, e segnatamente all’art. 24 c. 1 e 2 e ai regolamenti ivi richiamati […]. Ad avviso dell’appellante, l’illegittimità del provvedimento di diniego discenderebbe dalla considerazione per cui i limiti previsti per l’accesso documentale, in quanto posti a presidio di interessi diversi da quelli che presidiando l’accesso civico generalizzato, non potrebbero essere richiamati ed applicati per analogia soprattutto laddove introducano limitazioni all’accesso sottratte alla riserva di legge. In tale ordine di idee, i limiti all’accesso documentale dovrebbero essere coordinati, contestualizzati e adattati alle finalità che ispirano il nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, rispetto al quale occorrerebbe sempre supportare il provvedimento che nega l’accesso con un preciso obbligo motivazionale. A sostegno di questa conclusione la parte appellante evidenzia che il diritto di accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni è stato qualificato dalla Corte EDU come diritto fondamentale protetto dall’art. 10, par. 1, CEDU, in quanto specifica manifestazione della libertà di informazione. Rileva, a tal riguardo, l’appellante che dalle Linee guida ANAC, dalla Circolare FOIA 2/2017 e dalla riserva di legge contenuta nell’art. 10 CEDU, discenderebbe che le pubbliche amministrazioni, nel definire le modalità concrete di esercizio del diritto, possono disciplinare esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno, ma non possono incidere negativamente sull’estensione del diritto. Di qui la necessità di interpretare cum grano salis il rinvio che l’art. 5-bis, co. 3 del decreto opera all’art. 24, co. 1 e 2 della l. 241/1990, in tema di esclusione del diritto di accesso. Con un secondo mezzo di gravame, la parte appellante lamenta l’omessa pronuncia, da parte della sentenza impugnata, sul motivo del ricorso di primo grado tendente a conseguire l’annullamento […] del decreto ministeriale […] recante la [continua ..]

» Per l'intero contenuto effettuare il login inizio