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Il diritto al buono pasto sussiste anche quando raggiungere la mensa richiederebbe un sacrificio sproporzionato

nota di Ilaria Renzo.

L’oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato in commento riguarda la modalità di fruizione del buono pasto per i lavoratori.

Nel giudizio di appello, si controverte dell’impugnazione di una sentenza con cui il Tar ha accolto il ricorso proposto da un gruppo di lavoratori, dipendenti in forza presso un aeroporto situato lontano dal centro cittadino, contro la decisione dell'Amministrazione di limitare l'erogazione dei buoni pasto esclusivamente ai lavoratori con turni considerati incompatibili con il raggiungimento della mensa di servizio presso gli uffici.

In sostanza il diritto al buono pasto sarebbe stato concesso soltanto nel caso di indisponibilità o inaccessibilità di un servizio mensa interno o di una convenzione con ristoranti gestiti da privati.

Il datore di lavoro aveva ritenuto di limitare i buoni pasto, nel presupposto che i dipendenti avrebbero avuto la possibilità di raggiungere la mensa in tempi adeguati, anche perché il pasto non sarebbe stato consumato durante un intervallo tra due turni lavorativi con obbligo di rientro immediato, ma piuttosto al termine della prestazione lavorativa o prima dell'inizio di essa.

L'ufficio presso cui prestavano i servizi rientrava inoltre tra le "sedi disagiate" secondo quanto stabilito dall'articolo 1 della Legge 203/1989, il quale prevede in tale ipotesi la creazione di "mense obbligatorie di servizio".

Nel caso in cui non sia possibile istituirne una, l’Amministrazione, ai sensi dell'articolo 55 del D.P.R. 782/1985, ha il compito di procedere, in ordine di preferenza, alla stipula di convenzioni con altre Amministrazioni o enti pubblici dello Stato, all'appalto del servizio, alla stipula di convenzioni con esercizi privati, con oneri a proprio carico. L'articolo 35 del D.P.R. 254/1999 stabilisce che, se al verificarsi delle condizioni normative descritte, è possibile procedere tramite la concessione di un buono pasto.

I giudici hanno affermato più volte che il buono pasto, a meno che non sia diversamente stabilito, non costituisce parte della retribuzione, ma rappresenta piuttosto un beneficio di natura assistenziale legato al rapporto di lavoro in modo occasionale.

Questo concetto trova fondamento nella normativa di derivazione europea (decreto legislativo n. 66 dell’8 aprile 2003 in recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34) che regola l'organizzazione dell'orario di lavoro per garantire un ambiente salubre ai lavoratori, sia nel sistema costituzionale (articolo 32 Costituzione), che riconosce il diritto alla tutela della salute come un inalienabile. Di conseguenza, i buoni pasto sono concepiti con l'obiettivo di conciliare le esigenze dell'organizzazione del lavoro con quelle quotidiane dei lavoratori.

Pertanto, il Consiglio di Stato ha affermato nel caso di specie che l’Amministrazione risulta responsabile nel valutare se istituire una mensa interna, stipulare una convenzione con un servizio di ristorazione o fornire ai dipendenti i buoni pasto.

Se l'accesso alla mensa principale non è possibile per alcuni dipendenti e non vi sono accordi per garantire altrimenti il servizio di refezione, l'unica soluzione concreta disponibile è l’erogazione del buono pasto per i lavoratori interessati.

La valutazione sull’accessibilità effettiva alla mensa deve rispettare il principio di buona fede, corollario del dovere di solidarietà sancito dall'articolo 2 della Costituzione e oggi codificato dall'articolo 1, comma 2-bis, della legge numero 241 del 1990.

Questo principio guida i rapporti tra cittadino e Amministrazione, richiedendo ad entrambe le parti di bilanciare i propri interessi reciprocamente, anche in assenza di obblighi contrattuali specifici o norme esplicite.

La Repubblica, nel richiedere l'osservanza dei doveri inderogabili di solidarietà come previsti dall'articolo 2 della Costituzione, si riferisce non soltanto ai soggetti privati, ma anche, per così dire, a sé stessa. Questo significa che, innanzitutto, si rivolge agli enti pubblici territoriali, come individuati dall'articolo 114 della Costituzione. Pertanto, il principio di solidarietà enunciato nell'articolo 2 diventa un dovere tanto per i singoli soggetti quanto per la Repubblica stessa.

L'impossibilità di accedere alla mensa, ai fini dell’erogazione del buono pasto, è considerata sussistente anche quando l’accesso sarebbe teoricamente anche possibile ma richiederebbe ai lavoratori un sacrificio “sproporzionato”.

Così nel caso specifico, come riportato nella sentenza, sarebbe irragionevole pretendere che i dipendenti in servizio presso una sede al di fuori dell'abitato cittadino debbano spostarsi fino in città per accedere alla mensa, senza altri motivi per farlo, e poi tornare in servizio o a casa. L’Amministrazione avrebbe dovuto infatti garantire loro la possibilità di consumare il pasto nelle vicinanze del luogo di lavoro.

Di conseguenza, i buoni pasto devono essere riconosciuti ai dipendenti fino all'effettiva attivazione di una soluzione idonea che consenta loro di consumare il pasto presso la sede di lavoro o in un'altra struttura nelle vicinanze e facilmente accessibile.

Argomento: buono pasto
Sezione: Consiglio di Stato

(Cons. di Stato, sez. II, 19 maggio 2023, n. 5007)

Stralcio a cura di Rossella Bartiromo

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"[L]’art. 35 del DPR n. 254 del 1999 stabilisce che, qualora ricorrano le condizioni previste dall’art. 2, co. 1, della legge n. 203, le Amministrazioni «possono anche provvedere tramite la concessione di un buono-pasto giornaliero» (il cui importo è stato determinato in 7 euro dal DPR n. 51 del 2009); la previsione è stata confermata, con specifico riferimento ai dipendenti delle “sedi disagiate”, dall’art. 1, co. 703, della legge del 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018). Dal quadro normativo sopra esposto emerge che, per assicurare la fruizione del pasto ai dipendenti delle “sedi disagiate”, l’Amministrazione è chiamata, in primo luogo, a costituire una mensa di servizio; nei casi in cui sia impossibile assicurarne il funzionamento, può provvedere ai sensi dell’art. 55 del DPR n. 782 del 1985, dunque, in ordine di preferenza: a condividere mediante convenzione la mensa gestita da altri enti pubblici, ad appaltare il servizio o a stipulare accordi con esercizi privati; oppure può attribuire ai dipendenti buoni-pasto giornalieri, modalità prevista dall’art. 35 del DPR n. 254 del 1999 quale alternativa ed equivalente a tutte quelle indicate nell’art. 55 del DPR n. 782 del 1985. […] La possibilità o meno di accedere alla mensa deve essere valutata secondo il criterio di buona fede, che è un principio generale del diritto, corollario del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e oggi codificato dall’art. 1, co. 2-bis, della legge n. 241 del 1990, quale criterio cui devono improntarsi i rapporti tra cittadino e Amministrazione, il quale, come afferma una giurisprudenza ormai consolidata, «impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche» (così fin da Cass. Civ., sez. III, sent. n. 20106 del 2009). La “impossibilità” di accedere alla mensa, rilevante ai fini della sussistenza del diritto al buono-pasto (in mancanza dell’attivazione di convenzioni con altre mense o con ristoranti), sussiste pertanto anche quando raggiungerla richiederebbe ai lavoratori un sacrificio sproporzionato. Per quanto rileva nel caso di specie, è da considerarsi [continua ..]

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