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La revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell´ente da reato per contrasto di giudicato con l´assoluzione della persona fisica può fondarsi solo sull´incompatibilità tra fatti storici e non anche sulla mancata individuazione dell'autore del reato

Raffaele Costanzo

Sommario: 1. Introduzione – 2.  Fatto e  Ricorso – 3. Motivi e decisione – 4. Conclusioni  

  1. Introduzione.

La decisione in commento[1] si occupa del perimetro, della cognizione e della portata del giudizio di revisione, in particolare quando ha ad oggetto una sentenza di applicazione della sanzione su richiesta delle parti che interessa l’ente e la successiva sentenza di assoluzione delle persone fisiche imputate del reato-presupposto.

La commissione di un reato-presupposto da parte di un soggetto strutturalmente e funzionalmente collegato – anche solo di fatto – all’organizzazione di un ente è presupposto non esclusivo per l’attribuzione alla persona giuridica della responsabilità amministrativa derivante da reato[2].

La parziale sovrapposizione tra l’accertamento della responsabilità della persona fisica e quello della persona giuridica dà nondimeno luogo ad una riunione tra procedimenti, sicché la legge dispone la trattazione unitaria e consentanea sia del processo penale che vede coinvolti gli individui, sia del procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo che riguarda l’ente. La celebrazione del c.d. simultaneus processus trova in questo caso espressa previsione nell’art. 38, comma 1, d. lgs. n. 231/01[3].

La prassi applicativa, tuttavia, restituisce un quadro dello stato dell’arte parzialmente diverso.

Poiché la persona giuridica e quella fisica sono portatori di interessi solo di rado
sovrapponibili, sovente le loro strade si separano[4]: se, da una parte, il giudizio generalmente prosegue nelle forme ordinarie per l’imputato, dall’altra, invece, spesso l’ente accede ad un procedimento speciale, quale può essere proprio il patteggiamento.

Ne consegue che il giudice dispone la separazione dei due procedimenti, ai sensi dell’art. 38, comma 2, lett. b), ult. parte, d. lgs. n. 231/01, ciascuno dei quali si conclude con la propria attestazione di irrevocabilità delle decisioni.

E’ proprio in siffatta situazione che può annidarsi l’insidia rappresentata da due pronunce con statuizioni antitetiche (una di assoluzione e l’altra di condanna), dunque bisognose di ricondurre ad unità e coerenza i rispettivi giudicati.

La pronuncia di specie, infatti, offre proprio un contributo chiarificatore sui presupposti di applicazione dell’istituto della revisione anche per l’ente, al fine di superare il c.d. contrasto di giudicato.

  1. Fatto e ricorso.

Nel caso in esame, era occorso un incidente sul lavoro in uno degli stabilimenti dell’ente: la caduta di un portone scorrevole, non correttamente assicurato alle guide, cagionava delle lesioni gravi ad uno dei dipendenti.

Ne scaturiva sia il procedimento penale in cui erano imputati il delegato alla sicurezza dal datore di lavoro ed il custode dello stabilimento, per il reato p. e p. dall’art. 590, comma 3, c.p., sia quello di accertamento della responsabilità dell’ente, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, comma 3, d. lgs. n. 231/01.

Nel corso dell’udienza preliminare, il P.M. prestava il proprio consenso alla proposta di applicazione della sanzione su richiesta delle parti avanzata dall’ente, che veniva immediatamente trasfusa in sentenza; decisione che, poco dopo, sarebbe divenuta irrevocabile.

Gli imputati, invece, all’esito del successivo giudizio di primo grado erano entrambi assolti dal reato loro ascritto, con la formula <<perché il fatto non sussiste>>. Non impugnata, anche tale statuizione diveniva irrevocabile.

A seguito di ciò, ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., la difesa dell’ente avanzava alla corte d’appello territorialmente competente richiesta di revisione della sentenza di condanna emessa a proprio carico, per il superamento del contrasto tra giudicati. La Corte d’Appello, con apposita ordinanza, dichiarava inammissibile il ricorso, ritenendo insussistenti i presupposti per l’apertura del processo di revisione.

Avverso tale ordinanza, il difensore dell’ente proponeva ricorso per cassazione. Nel ricorso, in particolare, lamentava la non corretta decisione assunta dalla corte adita, giacché l’utilizzo della formula assolutoria <<perché il fatto non sussiste>> presupponeva l’inesistenza del fatto storico posto alla base della condanna dell’ente, da cui ne derivava contrasto tra giudicati con la sentenza di assoluzione emessa in favore degli imputati. Seppur in via del tutto incidentale, infatti, nella sentenza di patteggiamento era stata accertata la sussistenza del reato-presupposto della responsabilità dell’ente; affermazione in contrasto con la successiva assoluzione delle persone fisiche.

In punto di diritto, a sostegno delle proprie doglianze – dopo aver ritenuto impertinente l’orientamento sviluppato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di revisione per contrasto di giudicato, inerente le sole persone fisiche – veniva richiamato il principio espresso da altro giudice di merito[5], secondo cui è ammissibile la richiesta di revisione della condanna dell’ente quando è intervenuta una pronuncia irrevocabile di assoluzione nei confronti delle persone fisiche che esclude la sussistenza del reato presupposto.

Tanto premesso, entriamo nel merito della decisione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione.

  1. Motivazione e decisione.

La S.C., ritenendo corretta la decisione assunta dalla corte d’appello territoriale, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto, attraverso un ragionamento che si snoda essenzialmente in quattro passaggi.

In primo luogo, en passant, la Corte si è interrogata sul se la revisione possa essere esperita dall’ente.

A tale quesito può darsi risposta positiva sulla scorta di due indici, uno letterale ed uno sistematico. Ad un primo livello, l’art. 73 d. lgs. n. 231/01 estende all’ente la disciplina contenuta nel Libro IX, Titolo IV, del codice di procedura di penale, di cui agli artt. 629-642, specificamente dedicata al giudizio di revisione. Ad un secondo ed ultimo livello, l’art. 35 d. lgs. n. 231/01 consente di estendere all’ente la disciplina dell’imputato e a fortiori quella dei mezzi di impugnazione ad esso consentiti.

 In secondo luogo, ci si è domandati se la revisione possa operare anche nei confronti delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Anche a tale quesito si è data risposta affermativa. L’art. 629 c.p.p., così come è stato modificato per effetto dell’art. 3, comma 1, l. 12 giugno 2003, n. 134, ha infatti esteso il perimetro del giudizio di revisione anche nei confronti delle sentenze rese ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p.

Chiarito il perimetro, il cuore del reasoning della Corte ruota tutt’intorno alla cognizione del giudice della revisione per contrasto di giudicato, ossia il significato da attribuire alla previsione di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p.

Sul punto, richiamando le indicazioni stabili provenienti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di contrasto tra giudicati, è stato ribadito come la revisione possa essere esperita solo ed esclusivamente là dove i fatti posti a fondamento della precedente sentenza di condanna e quelli ricostruiti nella successiva pronuncia assolutoria siano tra loro incompatibili, in quanto una nega e l’altra afferma l’esistenza di un determinato fatto o viceversa, non anche quando vi è semplicemente un contrasto di principio tra i giudicati, dato da una diversa valutazione dei fatti medesimi, o ancora da un ricorso a criteri diversi di valutazione di quegli stessi fatti[6].

Tali oscillazioni, purtroppo, rappresentano l’alea del giudizio.

Una volta fissato il principio da applicare nel caso di specie, è stato necessario un raccordo col profilo fattuale della vicenda processuale.

La Corte ha dovuto chiarire come, benché le persone fisiche fossero state assolte con formula ampiamente liberatoria, l’utilizzo di tale formula da parte del giudice di merito sia stata impropria: questo perché – come si legge dalla motivazione – si è escluso che gli imputati fossero titolari della relativa posizione di garanzia di protezione, ma non è stato posto in discussione l’accadimento dell’infortunio sul luogo di lavoro.

In altri termini si è voluto sottolineare come sarebbe stato opportuno ricorrere ad altra formula assolutoria, in quanto il fatto si è verificato, anche se la sua responsabilità non è attribuibile a nessuno degli imputati.

Alla luce delle considerazioni appena sviluppate, da ultimo, al fine di precisare ulteriormente il potenziale dell’istituto della revisione per il superamento del contrasto tra giudicati, l’assise ha richiamato anche il principio di autonomia della responsabilità della persona giuridica da quella della persona fisica.

L’art. 8 d. lgs. n. 231/01, ai soli fini sanzionatori, tende a rimarcare in chiave sistematica i differenti presupposti e le differenti conseguenze della responsabilità dell’ente da quella dell’individuo: l’ente, infatti, non è esente da punizione quando l’autore del reato non è stato individuato.

Nel caso che ci occupa, pertanto, poiché la formula assolutoria utilizzata non è coerente col corpo della motivazione, da cui è emerso che il fatto è stato accertato e non è contestato, anche se l’autore è allo stato ignoto, la Corte ha ritenuto non condivisibili le osservazioni difensive e le ha disattese.

Detto altrimenti, vi è contrasto di giudicato solo in caso di negazione del fatto storico, non anche quando il suo autore sia ignoto[7].

  1. Conclusioni.

La pronuncia analizzata si presta a riflessioni che si dipanano lungo più direttrici[8].

Una prima riflessione, non può che ricadere sull’indirizzo della giurisprudenza di legittimità.

In materia di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, la giurisprudenza di legittimità si caratterizza per una rapida stabilizzazione dei suoi orientamenti interpretativi.

Il principio di diritto espresso nella pronuncia in esame, infatti, ha ricevuto conferma in una decisione successiva scaturita da un caso analogo, ritenendosi anche qui che la revisione sia impugnazione esperibile solo dove vi siano un contrasto tra i fatti posti a fondamento delle rispettive decisioni, non anche là dove tale contrasto inerisca alla sola valutazione dei medesimi[9].

Un’altra considerazione muove dall’osservazione dell’andamento della giurisprudenza di merito sul punto.

Non sono infatti mancate pronunce di corti d’appello territoriali in cui, a fronte dell’assoluzione della persona fisica, giudicata separatamente, con la formula <<perché il fatto non costituisce reato>>, la richiesta di revisione della condanna dell’ente sia stata accolta, in forza dell’asserita incompatibilità tra giudicati e senza scomodare il principio di autonomia delle rispettive responsabilità[10].

Ciò posto, dunque, non è del tutto peregrino affermare che la giurisprudenza di legittimità possa essere chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla questione, magari sollecitata proprio da un’impugnazione proposta avverso una decisione non conforme a queste prime indicazioni, benché ad oggi non sembrano esserci avvisaglie di soluzioni esegetiche alternative.

Un terzo ed ultimo ordine di riflessioni è imposto invece dall’osservazione della prassi applicativa.

Con la progressiva diffusione della disciplina di cui al d. lgs. n. 231/01 è probabile che si verifichi un aumento di separazione delle posizioni processuali di enti e persone fisiche, rispetto alle quali potrà sorgere contrasto di giudicato.

Ironia della sorte (e del processo), è solo all’esito dell’incontro-scontro delle contrapposte tesi caso per caso che potrà aversi risposta sui quesiti posti coi primi due ordini di considerazioni.

Sullo sfondo, tuttavia, resterà sempre il medesimo punto di domanda a solleticare l’interprete: ossia se la revisione sia unicamente strumento di giustizia sostanziale oppure arnese utile anche a rimuovere contraddizioni logiche nei rapporti tra giudicati.

Se la risposta è quella che già conosciamo, allora sarà necessario cercare altrove un motivo di incompatibilità tra giudicati, magari esplorando più profondamente i cardini della responsabilità dell’ente.

 

[1] Corte Cass., Sez. Pen. IV, sent. n. 10143/2023.

[2] Affinché possa essere attribuita all’ente la responsabilità per l’illecito amministrativo derivante da reato, è necessario: a) che sia stato commesso uno dei reati del c.d. “catalogo 231”, ossia una delle fattispecie richiamate dagli artt. da 24 a 25-duodevicies d. lgs. n. 231/01, anche se commessi in forma tentata (art. 26 decr. cit.); b) che tale fatto sia stato commesso da un soggetto strutturalmente e funzionalmente connesso con l’organizzazione dell’ente, vuoi perché in posizione apicale, vuoi perché in posizione di sottoposizione all’altrui vigilanza, anche se tali funzioni sono state esercitate in assenza di formale investitura; c) che la commissione del fatto fosse finalizzata al perseguimento di un interesse dell’ente o al conseguimento di un vantaggio; d) che all’ente sia imputabile un difetto organizzativo, consistente nella mancata adozione e/o attuazione delle cautele idonee a prevenire il compimento di fatti analoghi a quello verificatosi nel caso di specie. Tale modello si rinviene nella parte generale del decreto e, più precisamente, nella disciplina di cui agli artt. 5-8 d. lgs. n. 231/01.

[3] La riunione tra i due procedimenti è stata espressamente prevista dal legislatore in quanto, siccome la responsabilità della persona fisica è anche elemento costitutivo della responsabilità amministrativa dell’ente, si è quantomeno in un’ipotesi di collegamento probatorio, secondo quanto previsto dall’art. 371, comma 2, lett. b), ult. parte, c.p.p.

[4] Nella concreta dinamica processuale, persona fisica e persona giuridica sono portatrici quasi sempre di interessi differenti, che si riflettono su una differente modulazione della strategia processuale: l’ente, ad esempio, data la sostanziale imprescrittibilità dell’illecito amministrativo, non può inserirsi in un’azione processuale meramente dilatoria; ancora, sfruttando gli ampi margini di negoziabilità che gli consente l’art. 63 decr. cit., può addivenire alla negoziazione di una sanzione applicata su richiesta delle parti che escluda in tutto o in parte le sanzioni interdittive o che incida sul profitto confiscabile, in quanto quest’ultima è sempre sanzione amministrativa e, pertanto, deve rientrare espressamente nell’oggetto dell’accordo.

Ancora: quando non ricorrono i presupposti del patteggiamento, si può ricorrere al giudizio abbreviato, al fine di attenuare le conseguenze sanzionatorie derivanti da un’eventuale condanna, ancor più se si pensa al nuovo art. 442, comma 2-bis, c.p.p. In ogni caso, uscire prima dal processo attenua le conseguenze reputazionali, alleggerisce il carico del dibattimento e consente comunque di attendere la decisione sulle contestazioni mosse alle persone fisiche, in modo da poter valutare gli estremi della richiesta di revisione.

[5] Corte App. Brescia, sent. n. 3507/2013.

[6] In tema di responsabilità ex d. lgs. n. 231/01, tale principio di diritto è stato ribadito anche da una pronuncia successiva: v., Corte Cass., Sez. Pen. III, sent. n. 43813/2023.

[7] Dalla disamina del caso di specie è stato estratto il seguente principio di diritto:<<In caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell’ente ai sensi del d. lgs. n. 231/01 per contrasto di giudicato - art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. - ove in separato giudizio si sia pervenuti all’assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 8 d. lgs. n. 231/01, la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato>>. Così, Corte Cass., Sez. Pen. IV, sent. n. 10143/2023, p. 6.

[8] Per altro commento in dottrina, si veda: Trashaj, M.,  L’ente patteggia ma le persone fisiche vengono assolte:la Cassazione esclude la revisione, Corporate Crime & Compliance Hub, 2023, al seguente URL: https://www.compliancehub.it/2023/03/30/lente-patteggia-ma-le-persone-fisiche-vengono-assolte-la-cassazione-esclude-la-revisione

[9] V., in questo senso, Corte Cass., Sez. Pen. III, sent. n. 43813/2023, che così si è espressa:<<Costituisce principio consolidato che il contrasto di giudicati di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., che legittima la revisione, attiene ai fatti storici presi in considerazione per la ricostruzione del fatto-reato e non alla valutazione dei fatti né all’interpretazione delle norme processuali in relazione all’utilizzabilità di una determinata fonte di prova>>.

[10] Uno stralcio della pronuncia cui si riferisce è riportato in corpo alla nota: Arena, M., Patteggiamento dell’ente e assoluzione del legale rappresentante, Filodiritto, 2022, al seguente indirizzo URL: https://www.filodiritto.com/patteggiamento-dellente-e-assoluzione-del-legale-rappresentante

Argomento: Responsabilità ente da reato (D.lgs. 231/2001)
Sezione:

(Cass. Pen., Sez. IV, 10 marzo 2023, n. 10143)

Stralcio a cura di Lorenzo Litterio

“2. Il contrasto di giudicati, cui si riferisce l’art. 630 cod. proc. pen., comma 1, lett. a), sussiste anche tra l’accertamento contenuto in una sentenza di patteggiamento e quello contenuto in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario, in quanto l’art. 629 cod. proc. pen., […], prevede espressamente la revisione “delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2” […]. E’ ovvio che tale procedura possa essere attivata anche nell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti, […]. Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudizio di revisione non può essere fondato sulla incompatibilità di due giudicati, a meno che non vi sia la prova che tale incompatibilità riguardi il fatto storico. […], il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili […] deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni. […] Nel caso di specie, […], il fatto storico è rappresentato dalla esistenza di un infortunio occorso sul luogo di lavoro […] ad un dipendente della […]. Nella sentenza di assoluzione non si è negato il fatto […], ma si è escluso che i due imputati rivestissero una posizione di garanzia. La difesa sostiene […] che la pronuncia assolutoria abbia accertato che il reato di lesioni colpose, che costituirebbe, […], il reato presupposto della responsabilità della società, non sussiste. In realtà, la motivazione della sentenza ha affermato cosa diversa, ritenendo che i due imputati non rivestissero una posizione di garanzia e adoperando una formula assolutoria che non corrisponde a quanto argomentato in motivazione. Il vulnus della ricostruzione offerta dalla difesa è insito nel prospettare che il giudice della sentenza abbia negato l’esistenza delle lesioni derivate dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. La lettura della sentenza rivela tutt’altro: il giudice, […], ha ritenuto che il fatto sussista, ma che non sia ascrivibile a responsabilità degli imputati. Si rammenta come in tema di responsabilità da reato degli enti […] la Suprema [continua ..]

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