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Il Whistleblower che segnala illeciti altrui commessi in concorso con il segnalante non può invocare nessuna esimente. Il pentimento può incidere solo sulla proporzionalità della sanzione

Annunziata Staffieri 

Con l’ordinanza in epigrafe i  Giudici di Piazza Cavour tornano a misurarsi con l’istituto del “whistleblowing”, un prezioso strumento di compliance “proattiva”, volto a rendere il  luogo di lavoro più sicuro ed eticamente attivo, consentendo la scoperta tempestiva di frodi e criticità prima che diano luogo a gravi responsabilità.

Trattasi, in particolare, di  un mezzo di prevenzione degli illeciti tramite il  quale i dipendenti oppure terze parti (quali ad esempio i fornitori o i clienti),  di un’organizzazione, pubblica o privata, possono segnalare, in modo riservato e protetto, eventuali illeciti riscontrati durante la propria attività lavorativa.

Il termine whistleblowing deriva da “whistleblower” che in inglese significa “soffiatore di fischietto”; una metafora del ruolo di arbitro o di poliziotto che richiama l’attenzione su attività non consentite, affinché cessino.

Il “whistleblower” è quindi la  persona che lavora in un’azienda, pubblica o privata, che decide di segnalare un illecito, una frode o un pericolo che ha rilevato durante la sua attività lavorativa o nel corso della sua esperienza presso l’azienda (nel caso di soggetto esterno alla stessa).

In particolare il whistleblowing è la pratica per segnalare violazioni di leggi o regolamenti, reati e casi di corruzione o frode, oltre a situazioni di pericolo per la salute e  la sicurezza pubblica.

Oltre alla prevenzione degli illeciti, il whistleblowing ha un’ulteriore importante finalità: quella di coinvolgere e sensibilizzare i cittadini nella lotta all’illegalità, responsabilizzandoli e richiedendo la loro partecipazione attiva per migliorare la società.

Nel nostro ordinamento giuridico il Whistleblowing è un istituto che ha una genesi molto remota. Non si tratta, di  una novità introdotta dal decreto legislativo n. 24/2023; infatti il whistleblowing  è stato introdotto in Italia dieci anni fa con la legge “Severino”, ovvero la legge n. 90/2012, ma solo per le pubbliche amministrazioni, con l’obiettivo di inserire la pratica delle segnalazioni negli organismi pubblici al fine di tutelare i segnalanti dipendenti pubblici.

L’obbligo, previsto per le pubbliche amministrazioni, di dotarsi di un sistema di segnalazione della corruzione è stato esteso, con la legge 30 novembre 2017, n. 179, al settore privato anche se  non a tutte le aziende ma solo a quelle che volontariamente si erano dotate dei modelli organizzativi, alla luce della legge 231/2001.

Con il decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 24, che ha recepito l’ultima direttiva europea sul tema,  è stata realizzata una vera e propria rivoluzione in materia.

Con tale provvedimento normativo è stato infatti esteso sia l’ambito soggettivo che quello  oggettivo della norma.

Per quanto riguarda l’ambito soggettivo, con la   recente normativa è stato esteso il concetto di “whistleblower”  intendendosi per tali  non solo i dipendenti subordinati  dell’azienda, ma anche gli ex dipendenti, i consulenti, i volontari, i tirocinanti,  i fornitori, i clienti, gli azionisti e chiunque sia entrato in contatto, anche temporaneamente, con l’azienda, potendo pertanto può beneficiare delle tutele previste dal d.lgs. n. 24/2023.

Inoltre, la disciplina è stata estesa ad altre tre categorie di aziende private:

-alle aziende che negli ultimi 12 mesi hanno avuto una media di oltre  249 dipendenti ( in tal caso  l’obbligo è stato esteso a partire dal 15 luglio scorso);

-alle aziende con almeno 50 dipendenti, in media, nell’ultimo anno (che hanno l’obbligo di adeguarsi entro il prossimo 17 dicembre 2023);

  • alle aziende che a prescindere dal limite dimensionale, operano in alcuni settori particolari (le quali dovranno adeguarsi entro il prossimo 17 dicembre 2023).

Ma vi è di più. Con il decreto legislativo n. 24/2023 è stato, altresì, esteso l’ambito oggettivo della normativa; infatti adesso rientrano tra le casistiche di segnalazione:

  • gli illeciti amministrativi, contabili, civili o penali;
  • le condotte illecite, rilevanti ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001;
  • gli illeciti, che rientrano nell’ambito di applicazione degli atti dell’Unione Europea o nazionali, inerenti ai seguenti settori: appalti pubblici, servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, sicurezza e conformità dei prodotti,  sicurezza dei trasporti.

Ma cosa devono fare, allora,  i datori di lavoro?

I datori di lavoro, sia pubblici che privati, debbono predisporre procedure e canali di comunicazione utili a favorire le segnalazioni interne all’azienda, garantendo l’anonimato e la riservatezza dell’autore e dei documenti prodotti.

I canali di segnalazione possono prevedere l’utilizzo di forme scritte, digitali o  anche conversazioni dirette con il segnalante.

La gestione del canale di segnalazione può essere affidata:

  1. a una persona o a un ufficio interno autonomo dedicato e con personale specificatamente formato;
  2. a un soggetto esterno.

Questi soggetti devono, poi:

a)rilasciare alla persona segnalante avviso di ricevimento della segnalazione entro sette giorni dalla data di ricezione;

b)mantenere interlocuzioni con la persona segnalante e richiedere a quest’ultima, se necessario, integrazioni;

c)dare diligente seguito alle segnalazioni ricevute, con riscontro al segnalante entro tre mesi dalla data dell’avviso di ricevimento o, in mancanza di tale avviso, entro tre mesi dalla scadenza del termine di sette giorni dalla presentazione della segnalazione.

Inoltre, devono essere messe a disposizione di tutti i dipendenti informazioni chiare sul canale, sulle procedure e sui presupposti per effettuare le segnalazioni interne o esterne.

Le informazioni vanno esposte e rese facilmente visibili nei luoghi di lavoro, nonché rese accessibili alle persone che, pur non frequentando i luoghi di lavoro, intrattengano un rapporto giuridico con l’azienda e, infine, rese pubbliche  nel sito internet aziendale.

Il decreto legislativo n.24/2023 vieta, all’art. 17, eventuali comportamenti ritorsivi, diretti o indiretti,  verso chi segnala le irregolarità, quali ad esempio:

- il licenziamento,

-la sospensione disciplinare;

-il trasferimento;

-il cambio di mansioni,

- le modifiche dell’orario delle mansioni;

- molestie e/o discriminazioni .

Diversamente, eventuali comportamenti ritorsivi saranno puniti  con sanzioni piuttosto aspre, comprese tra i 10.000 e i 50.000 euro.

 

Al riguardo è, tuttavia,  opportuno chiarire che tale la normativa sul whistleblowing  sebbene sia volta a tutelare  il  segnalante da eventuali sanzioni disciplinari che potrebbero essergli inflitte o da reazioni ritorsive, non costituisce, tuttavia,  una scriminante per gli autonomi illeciti che egli abbia commesso, da solo o in concorso con altri.

E’ quanto stabilito dai Giudici di Piazza Cavour  con l’ordinanza n.400 del 31 marzo 2023 con la quale il Sommo Collegio ha respinto il ricorso promosso da una infermiera  sanzionata  per aver svolto attività lavorativa in assenza di autorizzazione.

Questi i fatti di causa: una struttura sanitaria pubblica aveva avviato un procedimento disciplinare  nei confronti di una infermiera per aver svolto attività non autorizzata presso un ente privato, per circa, 8 anni, percependo un compenso complessivo di circa 28.000 euro.

All’esito del procedimento disegnato dall’art. 7 della legge n.300/70, dopo un’attenta istruttoria, la dipendente veniva sospesa dal lavoro per quattro mesi.

Tale sanzione veniva impugnata dalla dipendente innanzi al giudice del lavoro invocando le tutele previste dall’art. 54 bis del Dlgs n.165/2001 recante disciplina del cd whistleblowing, poiché aveva denunciato il medesimo comportamento tenuto da altri suoi colleghi.

Tale ricorso, sia in primo che in secondo grado, veniva rigettato dai giudici di merito in quanto la norma invocata dalla lavoratrice non poteva essere considerato una esimente rispetto agli illeciti commessi.

In considerazione di ciò, la lavoratrice soccombente decideva di presentare ricorso in Cassazione, la quale con l’ordinanza in commento, respingendo il ricorso presentato dalla infermiera, ha rimarcato che la tutela prevista dall’art. 54 del dlgs n. 165/2001 non costituisce uno scudo generalizzato rispetto agli illeciti commessi dal segnalante, da solo o in concorso con altri.

L’eventuale “pentimento” rileva solo relativamente alla proporzionalità della sanzione senza, tuttavia,  costituire un’esimente.

Argomento: Whistleblowing
Sezione:

(Cass. Pen., Sez. Lavoro, 31 marzo 2023, ord. n. 400)

Stralcio a cura di Fabio Coppola 

“ (…) la Corte d'Appello ha preso le mosse dal fatto che la (omissio) i fosse resa responsabile dello svolgimento senza autorizzazione di attività infermieristiche all'esterno dell'organizzazione datoriale, per un lungo periodo pluriennale e che essa aveva sporto denuncia presso il medesimo datore di lavoro, rispetto ad analoghe condotte di altri colleghi; al di là della questione in ordine all'effettiva applicabilità ratione temporis dell'art. 54-bis (gli illeciti addebitati alla (omissis) risalgono al 2003-2011), va in lealtà condivisa, in via assorbente, la soluzione data dalla Corte territoriale a quanto oggetto di causa; la fattispecie delineata dall'art. 54-bis esclude dal proprio novero le condotte calunniose o diffamatorie (poi, secondo il testo novellato dalla legge n. 179 del 2017, in presenza almeno di colpa grave), per ricomprendere invece le segnalazioni effettuate dal dipendente ai propri superiori di illeciti altrui, con l'effetto di impedire che il medesimo, in ragione di tali segnalazioni, possa essere sanzionato, o sottoposto a misure direttamente o indirettamente discriminatorie aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati in modo diretto o indiretto alla denuncia; (…) l'applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti suoi propri resta dunque al di fuori della copertura fornita dalla norma, che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il solo fatto di denunciare la commissione del medesimo fatto o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti; ciò è già nel testo della norma interna, ma anche le fonti internazionali che stanno alla base dell'istituto orientamento nel medesimo senso; già la Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 116 del 2009, all'art. 33 prevede che gli Stati adottino misure appropriate per proteggere chi segnali illeciti, da qualsiasi «trattamento ingiustificato», tale evidentemente non potendo essere - e non meritando pertanto addirittura "protezione" - la commissione da parte propria, da soli o in concorso, di autonomi illeciti che nulla hanno a che vedere con tali segnalazioni; la Direttiva (UE) 2019/1937, la cui valenza interpretativa è innegabile, definisce del resto la [continua ..]

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