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Nel caso di responsabilità dell´ente da reato di evento di natura colposa, la
Maria Ruggiero
La pronuncia in esame opera una compiuta ricognizione dei più recenti e significativi approdi giurisprudenziali in materia di responsabilità amministrativa degli Enti, soffermandosi in particolare sulle nozioni di “colpa di organizzazione” e sui criteri di imputazione dell’interesse e vantaggio. Ciononostante, è il tema giuridico sotteso all’addebito mosso all’Ente a rivelare una portata ancor più dirompente: la pronuncia affronta – seppur in via implicita – i profili distintivi tra le nozioni di safety e security, relativi rispettivamente alla gestione dei rischi endogeni ed esogeni dell’integrità psico-fisica dei lavoratori in relazione al quadro normativo delineato dal D.lgs. 81/2008.
Prima di procedere ad un’analisi dell’iter motivazionale percorso dagli Ermellini, vale la pena soffermarsi brevemente sulla vicenda da cui trae origine la sentenza in esame e sugli addebiti rispettivamente mossi all’Ente e ai soggetti ad esso funzionalmente collegati. L’origine del procedimento risiede nel sequestro, avvenuto in territorio libico, di quattro dipendenti di una multinazionale italiana impiegati in una missione tecnico-industriale presso impianti siti in un’area ad alto rischio geopolitico. Il trasferimento verso il compound libico, eseguito via terra su disposizione dell’Operation Manager e dirigente locale, dotato di apposita delega alla sicurezza, contravveniva alle direttive aziendali che, in ossequio a raccomandazioni ministeriali, prevedevano l’utilizzo della tratta marittima negli spostamenti per ragioni di sicurezza. Nel corso della detenzione successiva al sequestro, due dei quattro lavoratori perdevano la vita durante un conflitto armato. A seguito dell’evento, veniva contestato ai membri del Consiglio di Amministrazione e all’Operation Manager della società il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p., in relazione alla presunta omissione di adeguate misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori. Parallelamente, veniva instaurato il procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi dell’art. 25-septies del D.lgs. 231/2001, definito in primo grado con una sentenza di condanna, integralmente confermata dal giudice di seconde cure. In particolare, l’addebito mosso all’Ente sarebbe consistito nella mancata adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione di reati da parte dell’Operation Manager. Secondo quanto evidenziato nella ricostruzione operata dalla Corte di merito, la società non si era dotata di un modello organizzativo idoneo a contrastare iniziative estemporanee dei dirigenti, contrarie alle prassi aziendali vigenti e lesive per l’integrità psico-fisica dei lavoratori, di protocolli che prevedessero una formazione puntuale del personale aziendale in merito ai rischi endogeni ed esogeni correlati alla mansione e all’area geografica in cui avrebbero operato, nonché la mancata previsione di tali rischi all’interno del DVR.
Nel pervenire all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per insussistenza dell’illecito amministrativo ascritto all’ente, la Suprema Corte riafferma un orientamento ormai consolidato, ancorando l’accertamento della responsabilità ad un approccio di stampo sostanzialistico e rigoroso. Tale impostazione, finalizzata ad escludere ogni forma surrettizia di responsabilità oggettiva, valorizza invece la verifica della sussistenza, in concreto, di una colpa di organizzazione, intesa come elemento costitutivo dell’illecito, in relazione al quale il reato presupposto deve porsi in stretto e univoco rapporto di derivazione causale. Nel confermare tale prospettiva, la Corte di legittimità ribadisce – in continuità con precedenti conformi – un efficace parallelismo tra la colpa di organizzazione, rilevante per la responsabilità dell’ente, e la colpa rilevante nel giudizio sulla responsabilità penale della persona fisica. In entrambi i casi, infatti, si tratta di un elemento costitutivo del fatto tipico: ne consegue che l’onere probatorio relativo alla colpa di organizzazione grava sull’accusa, mentre spetta all’ente eventualmente fornire prova contraria. La definizione sostanziale della colpa di organizzazione viene, altresì, precisata alla luce dei principi espressi dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24 aprile 2014 (caso Thyssenkrupp), i cui approdi interpretativi continuano a fungere da riferimento autorevole nei casi di responsabilità dell’Ente derivanti da reati colposi d’evento, connessi alla violazione della normativa antinfortunistica. In tali ipotesi, “la ‘colpa di organizzazione’ deve intendersi in senso normativo, ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo.”
In secondo luogo, la Suprema Corte si sofferma sui criteri dell’interesse e vantaggio previsti dall’articolo 5 del D.lgs. 231/2001. Secondo l’impostazione accusatoria prospettata, il dirigente locale avrebbe, in ogni caso, agito nell’interesse della Società ed al fine di ottenere un vantaggio economico, rappresentato sia dalla possibilità di impiegare i tecnici in tempi più celeri, sia dal risparmio di spesa derivante dal mancato pernottamento dei tecnici in Tunisia, da cui sarebbero poi stati trasferiti via mare verso la Libia. La Suprema Corte, dal canto proprio, si interroga sulla possibilità di ravvisare in capo alla Società un interesse connesso a quella che viene espressamente definita come un’iniziativa estemporanea di un proprio dirigente, adottata in contrasto alle prassi operative vigenti e consolidate. Nel motivare la propria decisione, la Suprema Corte si fonda su elementi sia fattuali che giuridici conformi ad orientamenti giurisprudenziali consolidati in tema di interesse o vantaggio dell’Ente. In particolare, viene innanzitutto rilevato come – sulla base del tessuto motivazionale delle pronunce di merito e degli atti processuali – non sia emersa alcuna esigenza o urgenza operativa che giustificasse la necessità di disporre celermente dei tecnici presso il compound libico. A ciò si aggiunga che l’asserito risparmio di spesa appare del tutto irrisorio nel quantum e privo di reale incidenza, specie se rapportato alle capacità economiche di una società multinazionale. In ultimo luogo, gli Ermellini ribadiscono il carattere estemporaneo e sporadico della violazione delle prescrizioni operative operata dall’Operation Manager. Ciò perché, per un orientamento invero consolidato, la valutazione sulla sussistenza di un “interesse” e “vantaggio” deve essere compiuta sulla base del contesto complessivo dei fatti oggetto di causa, oltre che essere strettamente correlata al contestuale accertamento di una “colpa di organizzazione” in capo all’Ente. In tale contesto, assume rilievo dirimente ai fini dell’accertamento della responsabilità anche il carattere sporadico o sistematico della violazione giacché la sistematicità delle infrazioni può costituire un elemento rilevante sul piano probatorio, quale possibile indice della consistenza economica del vantaggio conseguito dall’Ente per effetto dell’omessa adozione di adeguate misure preventive. Va, pertanto, considerato che “l’esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell’interesse e/o del vantaggio e, quindi, la responsabilità dell’ente, ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza”: orientamento, peraltro condivisibile, volto ad evitare un’indebita estensione dell’ambito applicativo del regime di responsabilità dell’Ente a tutte le ipotesi in cui sia riscontrata l’omessa (isolata) adozione di misure preventive. Infine, il Supremo Consesso rileva che la decisione impugnata non ha fatto buon governo degli arresti giurisprudenziali in tema di rapporti tra la violazione e l’interesse dell’ente, né ha considerato che, pur potendo la responsabilità sorgere anche in presenza di una singola condotta illecita, “il vantaggio deve comunque risultare oggettivamente apprezzabile (ad esempio, in termini di fatturato o di ampliamento dei settori di operatività, ed eziologicamente collegato all’attività societaria.”
Nota di Gemma Ciaglia
La sentenza che si annota prende posizione su argomenti centrali della disciplina della responsabilità dell’ente da reato, fornendo una chiave di lettura sostanzialistica in ordine a delega di funzione e colpa di organizzazione.
La vicenda giudiziaria sottesa alla pronuncia attiene alla morte, in seguito a sequestro di persona, di due tecnici italiani dipendenti di una società per azioni deputati ad eseguire prestazioni specialistiche presso un impianto sito in territorio libico. Giunti insieme ad altri due colleghi in Tunisia, anziché essere trasferiti nello stabilimento a cui erano diretti con la nave appositamente messa a disposizione dal committente per ragioni di sicurezza, venivano informati dall’Operation Manager della Società che il trasferimento sarebbe avvenuto a bordo di un pick-up, con una variazione di programma rispetto a quanto avveniva di consueto. Durante lo spostamento, il veicolo veniva affiancato da due vetture i cui occupanti intimavano all’autista di fermarsi e scendere, ponendosi poi alla guida del pick-up e allontanandosi con i quattro italiani a bordo; la prigionia dei quattro cittadini italiani si protraeva per un lungo periodo. Nel corso di uno spostamento da un rifugio all’altro, i prigionieri venivano separati e due dei quattro tecnici rimanevano vittima dello scontro a fuoco scoppiato tra i sequestratori e soggetti armati non identificati.
La sentenza di primo grado riconosceva la responsabilità penale per l’omicidio colposo dei due italiani in capo ai membri del consiglio di amministrazione della Società (a titolo di cooperazione colposa nell’omicidio doloso commesso dai sequestratori e dagli ignoti che avevano materialmente realizzato l’azione omicidiaria) e accoglieva la richiesta di patteggiamento dell’Operation Manager al quale l’organo amministrativo aveva conferito delega per la sicurezza. Condannava altresì la società per illecito amministrativo dipendente da reato ai sensi dell’art. 25-septies D.lgs. 231/2001.
La Corte di Appello riformava la sentenza impugnata, assolvendo il Presidente e i componenti del Consiglio di amministrazione per non aver commesso il fatto; confermava invece la condanna della persona giuridica.
La Cassazione esamina separatamente i motivi di doglianza avanzati dal Procuratore Generale per quanto concerne la posizione degli amministratori e quelli della Società con riferimento alla responsabilità della persona giuridica.
Nel validare la pronuncia assolutoria dei componenti del CdA della Società, la Corte precisa innanzitutto come l’individuazione delle singole responsabilità non possa restare agganciata criteri meramente formalistici, legati all’esistenza di posizioni di garanzia, bensì sia necessario ricorrere a criteri di tipo sostanzialistico, volti a stabilire in concreto se, nell’ambito dei poteri di cui erano titolari, gli imputati fossero venuti meno a obblighi funzionali all’impedimento dell’evento. Sulla scorta di tale input metodologico, la Suprema Corte osserva come nessun rimprovero a titolo di colpa potesse essere mosso nei confronti dei due consiglieri privi di deleghe operative, atteso che la mancanza di poteri gestionali elideva in radice la possibilità di attuare poteri di vigilanza sull’articolazione in Libia e, dunque, di intervenire in ordine alle modalità di trasferimento indicate dall’Operation Manager.
Diverso percorso argomentativo viene svolto con riferimento alla posizione del Presidente del CdA; la Corte rileva l’esistenza di una specifica delega di funzioni, conferita dal Consiglio di amministrazione con apposita delibera, con la quale al delegato – persona ritenuta dai giudici di merito figura professionale di comprovata capacità ed esperienza, con conoscenza pluridecennale dei precari equilibri sociopolitici del territorio libico – erano stati riconosciuti autonomia di gestione e di spesa ed era stato affidato il potere di adottare qualsivoglia misura idonea a garantire il rispetto della sicurezza dei lavoratori in un contesto difficile quale quello libico. Si trattava dunque di una delega di funzioni ‘reale’, con la quale l’organo amministrativo aveva esternalizzato la volontà della Società di rendere effettive, traducendole nella materiale adozione di tutte le misure ritenute più idonee, le prescrizioni previste dalla Società in materia di sicurezza sul luogo di lavoro. La Cassazione, soffermandosi su uno dei motivi di impugnazione del Procuratore Generale, ritiene irrilevante la dedotta mancata codificazione nel DVR della disciplina relativa alla gestione dei rischi connessi agli spostamenti dei dipendenti sul territorio libico (rischi connessi alla security e diversi da quelli c.d. safety, ovvero inerenti allo svolgimento delle lavorazioni). Il processo aveva infatti consentito di acclarare l’esistenza di una organizzazione aziendale volta a fronteggiare detti rischi, nota sia al soggetto delegato che ai lavoratori e solo nel caso di specie disattesa.
Tali rischi, inoltre, erano stati adeguatamente valutati nel modello di organizzazione della Società che, proprio in considerazione della natura ‘sensibile’ dell’area di rischio, aveva codificato la delega di funzione. La Corte evidenzia altresì come la delega di funzione fosse stata correttamente adoperata dal Presidente del CdA della Società, il quale aveva conservato in maniera costante contatti diretti con l’Operation Manager, ribadendo e raccomandandogli espressamente di procedere agli spostamenti del personale via nave, e senza che potesse fondatamente sostenersi l’esistenza di un obbligo di vigilanza sul suo operato, in considerazione della posizione apicale ricoperta, delle delega e degli autonomi poteri di gestione e di spesa.
La necessità di adoperare criteri di natura sostanziale nel procedimento di accertamento della responsabilità dell’ente da reato viene affermata dalla Suprema Corte anche in ordine al profilo della colpa di organizzazione.
Dopo aver riconosciuto la astratta configurabilità della responsabilità della persona giuridica ex art. 25-septies D.lgs. 231/2001, attesa la contestazione del delitto di omicidio commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (secondo la contestazione, integrata dalla mancata predisposizione del Documento di Valutazione Rischi sul punto specifico), la Cassazione osserva come – al netto della mancata previsione specifica nel DVR – la Società si fosse dotata di un Modello di Gestione e Controllo volto a prevenire anche il rischio connesso agli spostamenti dei dipendenti sul territorio libico. Segnatamente, gli amministratori avevano operato in modo da assicurare la tassatività delle disposizioni che rendevano obbligatorio il trasferimento via nave, rendendo le predette indicazioni conoscibili (ed effettivamente conosciute, come le sentenze di merito avevano accertato) da tutto il personale della Società e non esclusivamente dai soggetti in posizione gerarchicamente sovraordinata. Tale coacervo di circostanze conduce la Corte ad escludere la sussistenza della colpa di organizzazione in capo alla Società, elemento il cui accertamento nel processo a carico degli enti riveste carattere di necessità; è cioè indispensabile verificare l’esistenza in concreto di una colpa di organizzazione rispetto alla quale il reato che è stato commesso si ponga in stretto ed univoco rapporto di derivazione causale, potendosi così muovere un rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo. Proprio sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte censura le conclusioni del Giudice di merito che, nel confermare la responsabilità della Società, aveva basato tale decisione sulla ritenuta inidoneità del Modello atteso che esso non aveva sterilizzato il rischio di commissione del reato presupposto. I Giudici di legittimità osservano come la mancanza o la inidoneità dei modelli o, ancora, la loro inefficace attuazione non sono profili ex sesufficienti a configurare la responsabilità dell’ente da reato, essendo necessario, in considerazione della peculiare struttura dell’illecito addebitato all’ente, l’esistenza della relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente, al fine di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica ed evitare che il reato possa essere attribuito all’ente per il solo fatto di essere stato commesso da persona incardinata nell’organizzazione ma per scopi estranei a questa. Ciò consente di ritenere che l’ente, a somiglianza di quanto accade nel processo a carico delle persone fisiche, risponde per fatto proprio, di talché, per scongiurare addebiti a titolo di responsabilità oggettiva, deve in ogni caso essere verificata la sussistenza di colpa di organizzazione.
La Corte, valorizzando l’assetto concreto emergente dalle sentenza di merito, ritiene evidente come il modello di organizzazione fosse esistente, individuato in specifici documenti resi noti al personale e comunque idoneo a prevenire il rischio concretizzatosi a seguito dell’improvvida iniziativa dell’Operation Manager, escludendo dunque la sussistenza dei presupposti della responsabilità dell’ente e, di conseguenza, annullando senza rinvio la sentenza impugnata perché l’illecito amministrativo di cui all’art 25-septies D.lgs. 231/2001 non sussiste.
Sezione:
(Cass. Pen., Sez. IV, 25 giugno 2024, n. 31665)
Stralcio a cura di Claudia Scafuro
Keywords: responsabilità degli enti - colpa di organizzazione