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Sulla legittimità costituzionale della c.d. Legge Severino in materia di sospensione automatica dalla carica “pubblica” per i condannati in via non definitiva

Martina Durante

Con la sentenza in epigrafe la Corte costituzionale è stata chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a) della legge 235/2012 (cd. Legge Severino). La suddetta disposizione prevede la sospensione da varie cariche inerenti all’amministrazione regionale per coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei reati indicati dalla stessa legge.

La controversia oggetto del processo principale riguarda il ricorso operato da un consigliere regionale avverso il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ne ha disposto la sospensione dalla carica, data la condanna per falsità ideologica e peculato, al fine di chiederne la disapplicazione previa rimessione degli atti alla Consulta per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 8 della Legge Severino.

Il Tribunale di Genova ha reputato rilevanti e non manifestamente infondate due delle questioni di illegittimità proposte dal ricorrente.

La prima questione si fonda sulla presunta violazione degli artt. 117 e 122 Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione: l’assunto è che l’art. 8 della Legge Severino, disciplinando la sospensione di diritto a seguito di condanna non definitiva anche nei confronti dei consiglieri regionali, invaderebbe la sfera delle competenze legislative delle Regioni. Sul punto, il Tribunale di Genova, pur riconducendo la disciplina di incandidabilità, sospensione e decadenza dalla carica elettiva alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza che l’art. 117, comma 2, lettera h) Costituzione riconduce alla sfera di competenze statali, ritiene che la disposizione censurata incida in modo gravoso sul vertice politico e quindi avrebbe dovuto essere adottata in seguito ad una consultazione con le Regioni.

La seconda questione invece si fonda sulla presunta violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU: l’art. 8 della Legge Severino violerebbe i principi ivi riposti dato che prevede una deliberazione bilanciata, individualizzata e giudiziaria di ogni forma di perdita dell’elettorato. Nello specifico, mancherebbe un vaglio di proporzionalità tra i fatti oggetto della condanna e la sospensione dalla carica, quindi, opererebbe un mero automatismo che non considera la connessione tra i fatti e la carica esercitata. La norma risulterebbe insensibile rispetto alla gravità del fatto e opererebbe sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità.

Ciò risulterebbe contrastante con i principi della CEDU, la quale prevede all’art. 3 del Protocollo addizionale il diritto fondamentale di elettorato passivo e attivo per cui un’eventuale limitazione dovrebbe essere conseguenza di un procedimento individualizzato in cui si pone in collegamento il fatto commesso e la carica rivestita.

La Consulta reputa entrambe le questioni non fondate.

Per quanto riguarda la prima questione, il giudice a quo evocava la sentenza 251/2016 con cui la Consulta aveva affermato che sebbene la leale collaborazione non si imponga sul processo legislativo, sorge comunque la necessità dell’intesa Stato-Regioni ove il legislatore si accinga a riformare istituti che incidono su competenze inestricabilmente connesse. Tuttavia, l’ordinanza di rimessione era sprovvista della verifica dell’effettiva incidenza della disposizione su ambiti in cui concorrono competenze statali e regionali legate che non sia risolvibile con l’applicazione del criterio di prevalenza di una materia sulle altre: in una tale ipotesi non sarebbe costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, sempre se agisce in ossequio del principio di leale collaborazione che deve permeare i rapporti tra Stato e autonomie e che può ritenersi attuato tramite la previsione di un’intesa. Inoltre, la Corte ha ricondotto a più riprese il tema dell’incandidabilità, decadenza e sospensione dalla carica alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza che risulta essere di competenza statale e presenta un carattere prevalente anche quando interferisce con la competenza regionale.

Per quanto riguarda la seconda questione la Corte riprende la giurisprudenza comunitaria che, a più riprese, ha affermato che la disposizione dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU va interpretata nel senso di garanzia dei diritti soggettivi, quindi, anche del diritto di voto e del diritto di presentarsi alle elezioni. Tuttavia, questi ultimi costituiscono diritti non assoluti che possono, quindi, essere oggetto di limitazioni

implicite: gli Stati contraenti hanno facoltà di introdurre misure restrittive di tali diritti “purché nelle particolari circostanze del caso concreto sia dimostrata la compatibilità del fine perseguito con il principio del primato della legge e con gli obiettivi generali della Convenzione”. Data la loro natura di diritto non assoluto la Corte, al fine di vagliare la compatibilità tra eventuali limitazioni e la CEDU si serve di criteri particolari per cui esse non devono violarne la sostanza, privarli di effettività, devono perseguire un fine legittimo e non devono essere sproporzionate.
Inoltre, la Consulta riprende una decisione della Corte EDU del 2012 che ha consolidato l’orientamento secondo cui il legislatore statale ha facoltà di determinare nel dettaglio lo scopo e le condizioni di una misura restrittiva e che sia lasciato ai giudici il solo compito di verificare se un determinato soggetto appartenga o meno alla categoria contemplata nella limitazione, escludendo dunque apprezzamenti giurisdizionali sulla proporzionalità della singola misura.

Va inoltre, esclusa la violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU per la mancanza di un collegamento tra la sospensione e il reato commesso. Secondo l’orientamento cristallizzato della stessa Corte l’incandidabilità, la decadenza e la sospensione sono mere conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche: la sospensione risponde ad esigenze proprie della pubblica amministrazione e avendo natura provvisoria è una misura cautelare. Il legislatore del 2012, che ha introdotto tali misure nei confronti di un condannato, voleva assicurare quegli interessi tutelati dagli artt. 97, comma 2 e 54, comma 2 Costituzione che impongono l’organizzazione dei pubblici uffici col fine del buon andamento e dell’imparzialità, nonché il dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore. Data la ratio legis non vi è un contrasto con il principio di proporzionalità, anzi vi è stato un ragionevole bilanciamento tra gli interessi.

Può osservarsi, in conclusione, come anche in questa sede la Legge Severino abbia superato il vaglio di costituzionalità. La Corte ha confermato come la disciplina sull’incandidabilità, decadenza e sospensione rientri nella materia dell’ordine pubblico e sicurezza non lasciando alcun margine di competenza al legislatore regionale. Inoltre, è stato escluso che gli automatismi dell’art. 8, comma 1 lettera a) contrastino con la legislazione convenzionale, infatti, la CEDU lascia al vaglio degli Stati la scelta di affidare o meno ai giudici il potere di valutare in concreto la proporzionalità della misura o se inserire la valutazione a monte nella legge. La scelta del nostro legislatore non contrasta dunque con il diritto comunitario, anzi, garantisce il sistema democratico e contrasta la presenza di figure criminali nelle istituzioni.

 

Sezione: Corte Costituzionale

(C. Cost., 11 marzo 2021, n. 35)

stralcio a cura di Ilaria Romano 

“1.- Il Tribunale ordinario di Genova dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (…), ossia della cosiddetta “legge Severino”. (…) 1.3.- Il petitum delle questioni (…) è ricavabile dal tenore della motivazione, laddove, nel sintetizzare il contenuto delle due questioni di legittimità costituzionale ritenute non manifestamente infondate, il giudice a quo osserva che l’una - che invoca gli artt. 117 e 122 Cost. e il principio di leale collaborazione, la cui violazione è declinata come «difetto di ogni coordinamento e collaborazione» tra lo Stato e le regioni - tende «alla cancellazione integrale del fondamento normativo dell’istituto adottato in concreto», attraverso «una pronuncia soppressiva», mentre l’altra - con cui è dedotta la violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in tema di elettorato passivo - è diretta «alla introduzione di un potere di vaglio necessario minimo della proporzione tra il fatto ritenuto e l’effetto sull’elettorato passivo», attraverso «unapronuncia additiva» (…). 2.- Occorre dunque esaminare prioritariamente la questione principale (…). 2.2.- Nel merito, la questione non è fondata. (…) 2.2.1.- (…) si deve dunque escludere che, nel caso della sospensione automatica disciplinata dal censurato art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, si versi in un’ipotesi di intreccio inestricabile di materie, di competenza statale e regionale, non risolvibile con il criterio della prevalenza e, di conseguenza, che sia stato violato il principio di leale collaborazione per mancato coinvolgimento delle regioni nella formazione del decreto legislativo in cui la disposizione contestata è contenuta. 3.- Con la seconda questione (…) l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 è censurato nella parte in cui prevede l’applicazione della misura cautelare della sospensione come automatica conseguenza della condanna penale non definitiva per determinati reati e preclude così al giudice chiamato a pronunciarsi sul provvedimento sospensivo di valutare in concreto la [continua ..]

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